Ci sono momenti in cui nella vita occorre un romanzo che sappia risvegliare in noi una sorta di possessione. Che ci leghi con una catena sottile in grado di tenerci avvinti durante la giornata tramite la promessa che a sera, quando tutto sarà andato – guai, illusioni, perdite e vincite, emozioni e stanchezza, problemi e battaglie, disfatte – per qualche ora, l’ora del desiderato riposo notturno, tornerà a riprenderci.
È la promessa di Dies Irae che, impermeabile al conflitto quotidiano, nel momento in cui si apre offre subito l’incanto avvincente di una lunga storia che non potrai finire in una notte, nemmeno in due. Ti accompagnerà nel fastidioso cicaleccio diurno, pronto a ricordarti che la storia non è finita, continua e ti assorbirà ancora. E poi ancora.
L’autore, Ezio Amadini, nella sua elegante umiltà dice che Dies Irae è un’opera di intrattenimento, che quello è il suo unico fine. Che non ha velleità letterarie.
Non credeteci: Amadini è un affabulatore nato. Affabulatore – dice il vocabolario – è una persona che narra in maniera affascinante e abile o che racconta storie affascinanti ma poco fondate o totalmente infondate.
In Dies Irae vale l’affascinante e l’abile, ma non il poco fondate.
Perché il romanzo è sostenuto da un impianto scientifico studiato e verosimile, seppure con derive fantasiose o anticipazioni che ancora non esistono. D’altronde non è un saggio e giustamente non si profonde in noiosissime e chilometriche nozioni fuori luogo di carattere tecnico o tecnologico che a nessuno interessano, ma che ho il sospetto vadano un po’ di moda oggi. Perché? Non lo so, forse servono a fare volume, a coprire il nulla. La mancanza di fantasia. Un egocentrismo autoriale mal riposto.
Rilassatevi. In Dies Irae l’autore è onesto, non fa finta, non desidera confondervi le idee. Vuole solo catturarvi. Voi sarete la preda del mondo che racconta, dei suoi personaggi, di una complessa macchina narrativa che durerà a lungo, e non ve ne accorgerete. Anzi, vorrete ancora. E poi ancora.
Alla trama fantascientifica si sovrappone un ordito complesso in cui entrano in gioco aspetti economici che coinvolgono non solo grosse compagnie spaziali (parliamo di un futuro prossimo il cui germe è già qui, nel nostro tempo, visibile a tutti), ma anche risvolti politici planetari: lo sviluppo narrativo di intrighi bancari e spionaggio industriale, oltre a dimostrare la padronanza dell’argomento di ordine economico, ne evidenzia dinamiche che vanno a incidere sia nel privato che nel pubblico. Ma non aspettatevi aride dissertazioni in quest’ambito. Tutto affiora attraverso lo svolgersi dei fatti, come dovrebbe essere in un romanzo, senza intaccare l’incanto che produce la finzione narrativa.
A questi si aggiungono variabili pericolose di fondamentalismo religioso che deturpano e contrastano la spinta disinteressata e produttiva di una umanità in evoluzione, sia da un punto di vista etico che di progresso scientifico, perché l’Autore è un positivo: nonostante sappia raccontarci in modo crudo il lato oscuro dell’essere umano, dimostra di credere anche a un essere umano desideroso di portare in luce il meglio di sé.
Un’impalcatura complessa e accattivante, quindi, che sa agganciare anche il lettore più esigente e condurlo al di là degli asfittici confini terrestri, perché le zone d’azione saranno anche nello spazio, sulla Luna e su Marte.
Dire che Dies Irae sia un thriller fantascientifico o una detective story a sfondo fantascientifico è infatti riduttivo e spiega poco o niente del quadro polittico che ne esce, dove alle grandi vicende pubbliche che riguardano tutti si intrecciano gli scomparti delle vicende private dei numerosi protagonisti, con risvolti sorprendenti.
E perché no? Anche sentimentali. Con brevi e virili (si può usare ancora questo termine?) pennellate, l’Autore tratteggia delicati coinvolgimenti emozionali usando la penna più per velare che per spiegare, fornendo tutti gli elementi essenziali, ma al contempo nascondendo e regalando al lettore l’occasione per navigare con l’immaginazione.
Tutto accade in un breve periodo situato in un futuro estremamente prossimo, dal 2038 al 2052. La Terra è riconoscibile, come sono riconoscibili gli uomini, le loro passioni e i dissidi; l’assetto delle sovranità e i territori nazionali. Ma c’è una frattura importante che incide in quello che sembra quasi essere il nostro presente: è stato realizzato il fantastico progetto di un ascensore spaziale che abbatte gli enormi costi della messa in orbita geostazionaria. Un patrimonio dell’umanità intera alla cui realizzazione partecipano tutti, amici e nemici. Esistono già basi sulla Luna e il volo verso Marte da parte degli uomini, e non di sonde, non è più un sogno. Anzi, il Pianeta rosso sta già per essere colonizzato da più parti.
In Italia, una delle più grosse compagnie di ricerca spaziale, la MR-GWR, ha un progetto ambizioso a cui sta lavorando: vuole generare un tunnel gravitazionale “entro il quale una nave spaziale può viaggiare spinta da normali propulsori al plasma”. Questo permetterà di esplorare lo spazio a distanze inimmaginabili. L’enorme ascensore edificato sulla Terra darà il modo di inviare strumentazione, uomini e il necessario per impiantare una base su Marte, da dove il tunnel sarà generato.
Su questo incipit si svilupperà tutto.
A costellare la storia una fase già avanzata, rispetto alla nostra presente, di unità informatiche e I.A. di quotidiano utilizzo, anche sottocutaneo, e sperimentazioni ardite che faranno da protagoniste.
Ma che cosa significa Dies Irae?
Dies Irae è una sequenza liturgica, oggi cantata durante la messa di rito romano, che risale al Medio Evo. L’impressionante testo che descrive il giudizio universale, attribuito da sempre a Tommaso da Celano (1190 circa-1260 circa), sembra invece più antico. Ne è testimonianza lo studio dell’abate Amelli il quale ne scoprì una redazione anteriore in un codice benedettino-cassinese della fine del XII secolo (D.M. Inguanez-Amelli, Il Dies irae in un cod. del sec. XII, in Misc. Cassin. 1931, pgg. 5-11).
La sua potenza evocativa ha ispirato molti grandi musicisti.
Ascoltatela secondo l’interpretazione di Giuseppe Verdi, di Luigi Cherubini, di Wolfgang Amadeus Mozart o in quella che preferite. L’effetto è sempre sconvolgente.
Se state troppo bene vi riporterà a condizioni di equilibrio, se state male dimenticherete i vostri guai. Se avete caldo vi rinfrescherà, se avete freddo vi riscalderà. È il giorno dell’ira divina. Il giudizio finale.
Dies Irae, dies illa
solvet saeclum in favilla:
teste David cum Sybilla.Quantus tremor est futurus,
quando iudex est venturus,
cuncta stricte discussurus.Tuba, mirum spargens sonum
per sepulcra regionum
coget omnes ante thronum…
Con Dies Irae, pubblicato da Watson Edizioni nel 2017 (collana “Andromeda” a cura di Alessandro Iascy), Ezio Amadini ha esordito ed è stato tra i finalisti del premio Vegetti 2018. Direi un esordio con i fiocchi.
Catturata, ho catturato a mia volta l’Autore.
Ezio, quando ho letto dell’ascensore spaziale, all’improvviso ho rivissuto la passione febbrile di quando scoprivo la quadrilogia di Arthur C. Clarke e in particolare la sua descrizione di elevatori spaziali nel quarto volume, 3001: Odissea finale (per la cronaca Clarke parlò di elevatori spaziali anche in Le fontane del Paradiso). La mia immaginazione si è subito accesa, ed ero solo all’inizio di Dies Irae.
Hai preso spunto da lui?
No, non ho preso spunto da Clarke. L’idea è nata da un articolo che parlava di un’azienda giapponese che dice realizzerà un ascensore spaziale nel 2050.
Quanto tempo ti ci è voluto per la stesura preparatoria della trama? E la scrittura del testo?
Ho iniziato a scrivere Dies Irae il 4 febbraio del 2016 e l’ho finito a luglio dello stesso anno. I sei mesi (dedicati full time) ne comprendono due spesi tra ricerche e scrittura del software per la gestione delle configurazioni delle astronavi, dell’ascensore spaziale e dei calcoli di astrodinamica.
Ora che cosa hai in programma? Che cosa stai scrivendo?
Ho pronto un prequel di Dies Irae, “Il caso Madison”, un financial thriller che Letterelettriche sta valutando se pubblicare nel 2020 e al momento sto scrivendo il mio quarto romanzo, “Colpo di coda”, ambientato nel mare nel 2036/2037. Si tratta di un action thriller dove invece delle astronavi ci sono i sommergibili e non lo classificherei come FS.
Bibi: so che è un’unità informatica, certo, ma chi è (non cosa è), per davvero?
Bibi nasce come strumento evoluto del telefonino, ma quasi subito mi prende prepotentemente la mano e inizia a vivere di vita propria. Tra tutti i personaggi del romanzo è l’unica che non era stata preventivata e, forse proprio per questo motivo, è quella che dice a me cosa devo scrivere. Nessuno nella storia sa come sia diventata ciò che è, per il semplice motivo che non lo so nemmeno io. È come io penso che debba essere un’intelligenza artificiale dotata di coscienza: bella, etica, intelligente e, nel suo caso, anche femminile.
Che futuro prevedi per l’umanità nei prossimi cinquant’anni, o meglio, quali saranno i problemi più grossi che dovrà affrontare?
Questa è una domanda alla quale si dovrebbe rispondere con un romanzo, ma cercherò di fare una sintesi.
A mio avviso il problema più grosso che si dovrà affrontare è quello dell’incapacità dell’uomo, per il tramite della classe dirigente che lo rappresenta, di operare le scelte politiche in un’ottica di lungo periodo.
Prendiamo i mutamenti climatici che sono, a mio avviso, irreversibili (indipendentemente da quanto pesa la componente antropica).
L’umanità dovrebbe prima di tutto prepararsi ad affrontarli in modo organico e scientifico, anche spostando ampie masse di popolazione con un’organizzazione che oggi non sembra in grado di saper esprimere. Nessuno dovrebbe soccombere per il semplice fatto di essere nato nel posto sbagliato. Questo vale per tutte le aree della Terra che sono diventate o stanno diventando inabitabili, quindi non solo l’Africa o alcune isole del Pacifico, ma anche le coste del civilissimo Occidente.
L’umanità dovrà fare i conti con una generale crisi di sostenibilità, cioè della capacità del pianeta di mantenere in vita non tanto la specie umana, quanto la civiltà che essa ha costruito nel corso della propria storia. Ci sarà sempre maggiore carenza di risorse e per esse gli uomini combatteranno guerre sempre più feroci, con lo scopo di assicurarsi il diritto di continuare a sfruttare (troppo e male) il nostro pianeta.
Confido molto nel progresso scientifico, anche se esso non rappresenta la panacea per l’umanità.
In realtà la nostra specie continuerà a cadere, farsi male, rialzarsi e, forse, imparare dai propri errori.
I costruttori di ponti (Watson edizioni, 2018), secondo romanzo di Ezio Amadini, non è il sequel di Dies Irae, come si potrebbe supporre.
È vero, lo scenario si colloca nello stesso mondo del primo romanzo, ma siamo più in là nel tempo e sono cambiati i problemi, così come cambiano le tematiche fondamentali entro cui si muove la trama. Molti dei protagonisti li sentiamo famigliari perché sono i discendenti dei precedenti eroi, ma non sono figure smorte che sopravvivono dei fasti degli avi, si configurano anzi come spiriti ben diversi e a volte con diversi obiettivi.
La colonizzazione dello spazio è già una realtà effettiva, infatti il romanzo si apre su Keyda, un pianeta dislocato nel sistema stellare di Keyd, “noto anche come 40 Eridani, a circa 16,5 anni luce dal Sole”. Qui succede qualcosa di inspiegabile, ma la scena cambia subito e ci ritroviamo sulla Terra, anno 2152.
Si stanno preparando tempi bui. Il buon governo dell’Onu sta perdendo carisma, le frizioni internazionali cominciano a risvegliarsi, un problema di portata disastrosa assilla Pankaj Rastogi, ormai alla fine del suo secondo mandato come guida dell’Organizzazione delle Nazioni Unite: per la scarsa disponibilità di materie prime, il conseguente irrigidimento di molti governi, i cambiamenti climatici che hanno portato a scarsità d’acqua e alla riduzione della terraferma abitabile, è ormai chiaro e confermato da tutti i modelli di simulazione che “in un periodo che varia tra i venti e i cinquant’anni prossimi la Terra sarà teatro di sconvolgimenti tali da ridurre la sua popolazione dell’80%”.
L’unica soluzione possibile, non ventilata ma dichiarata suo malgrado e a chiare lettere da Rastogi sulla base di tutti gli studi fatti, e che va presa entro cinque anni se si vuole evitare il disastro, è una sola, ed è accolta con incredulità e disagio non solo dal Consiglio riunito in emergenza, ma anche dal lettore perché su queste premesse si configura una storia cupa senza possibilità di salvezza. Come se ne uscirà l’Autore? Perché se è vero, come dicevo, che Amadini è un autore positivo, è anche vero che siamo di fronte a un vicolo a fondo cieco.
In questo nodo inestricabile e convulso la lotta tra il Bene e il Male non resterà confinata sulla Terra, ma si muoverà anche nello spazio secondo una logica perfettamente realistica, plausibile e verosimile, scientificamente ben costruita. Plauso anche per questa seconda, avvincente prova.
Ezio Amadini ha pubblicato anche numerosi racconti sulle riviste Andromeda – Rivista di fantascienza (Ailus editore, poi passata a Letterelettriche editore) e Lost Tales (Letterelettriche editore).
Menzione al racconto Jordi (Letterelettriche, 2018) e al racconto Il libro, per il quale è arrivato secondo al Premio Gianfranco Viviani 2018.
In Lost Tales – Numero 0, Inverno 2018 è apparso l’interessante racconto Jordi. Il fulcro di questa storia ruota intorno a una questione di coscienza in materia robotica le cui conclusioni hanno tutti i numeri per sollevare un cumulo di obiezioni nel lettore, a causa della deriva finale.
In seguito a un brutto fatto, una Commissione processuale sta interrogando tutti i testimoni e gli implicati per capire se occorra arrivare a un processo. In ogni caso, quello che delibererà sarà inappellabile.
Pericoloso dire di più per non fornire anteprime che rovinino il piacere della lettura, ma non riesco a non dire che l’atto finale dell’ultimo protagonista umano sia altrettanto pericoloso, perché la libertà senza una direzione etica può solo generare un’epoca di Caos.
Concludo con il racconto Il libro, apparso recentissimamente nella rivista Lost Tales Andromeda, N. 3 – Luglio 2019. Si tratta di un curioso e originale racconto in cui il protagonista, un editore di letteratura fantastica e fantascientifica, una sera riceve, proprio poco prima di uscire dall’ufficio, la visita inaspettata e invadente di uno strano individuo il quale gli consegna un dattiloscritto. Per qualche illogico motivo non riesce a eluderlo e, anzi, si porta casa il plico contravvenendo a tutti i personali codici professionali a cui si attiene di solito.
Al di là della storia in se stessa, è singolare l’approccio che in questo caso non si può definire metaletterario, ma metaeditoriale. Un termine che non esiste nel vocabolario, incontrato solo una volta in un articolo di un blogger che disquisiva di “violenza nei videogiochi”, in cui meta- viene utilizzato per definire l’obiettivo di non parlare di violenza nel proprio metaeditoriale (in realtà un articolo, il blogger ha confuso il vero significato di editoriale), ma di parlare degli editoriali (articoli) che ne parlano, utilizzando il neologismo nel suo presupposto significato classico: estrapolare elementi contenutistici di altri autori (altri editoriali) per creare un nuovo contenuto. Mi allargo per chiarire un’altra cosa: meta- non significa quel citazionismo da cui siamo sempre più afflitti in ogni arte, meta- significa una ricreazione originale e personale, non il copia-e-incolla traslitterato in un altro contesto.
Chiarito questo, a scanso di equivoci, e chiarito che metaletteratura significa una produzione letteraria in cui vengono descritti i processi della scrittura e le convenzioni della letteratura, dando luogo a un risultato di autoreferenzialità (perché la scrittura non diventa più mezzo, ma fine), io ho estratto il termine metaeditoriale, invece, da metaeditoria. Un concetto più familiare ai nostri occhi, che ancora una volta per me, però, non ha il significato economico-sociale negativo assunto ultimamente in seguito ai grandi saloni del libro, dove l’accezione utilizzata è stata quella di un’editoria in crisi che, per sfuggire al declino, sforna libri che parlano di libri.
Molto più semplicemente, Il libro di Amadini è metaeditoriale perché descrive dinamiche editoriali, perché parla di un particolare editore di finzione e di un libro di finzione, perché ha connessioni con il genere letterario di cui si occupa l’editore/protagonista. È metaeditoriale per il titolo stesso. E mi auguro che resti sempre e solo finzione.
In realtà, la metafora dietro cui si occulta il tema portante è già qui e l’Autore lo sta denunciando. È la stessa realtà che stiamo vivendo in questo momento mentre state leggendo, con i suoi lati buoni, ma anche quelli cattivi. Dove per cattivi si intende ciò che è stato nascosto dietro la facciata e l’incapacità generale di percepirlo.
Tea C.Blanc