Esegesi probativa di DHALGREN (Dhalgren, 1975), un romanzo di Samuel Ray Delany

Articolo di Tea C.Blancclip_image002Anni fa leggevo per la prima volta lo scrittore statunitense Samuel Ray Delany. Il battesimo fu con Dhalgren, una sfida che mi fu lanciata da un amico che stavo tormentando da un po’ di tempo chiedendogli un romanzo che fendesse il cervello.
In qualche modo avevo intuito, prima ancora di aprire il libro, che sarebbe stato un viaggio indimenticabile. Perciò, quando iniziai a leggerlo, mi munii di carta e penna seguendo lo scrittore nella storia.
Ne uscì il resoconto di una lettura in tempo reale, a metà tra una recensione e una postfazione, e ancora non è esatto perché la natura imperscrutabile di Dhalgren aveva fatto in modo che, pur raccontando le mie impressioni capitolo per capitolo, non ne uscisse una sola anticipazione significativa per chi non lo avesse ancora letto.
Pur essendo un romanzo in cui ci sono un inizio, una trama e un finale chiarissimi, Dhalgren è una storia, infatti, che non si può raccontare: può essere solamente letta. In quello che scrivo dell’ultimo capitolo lo si vede bene: finisco col balbettare, non potendo fare altro che citare di fronte ai numerosi nodi che pian piano, genialmente, si svolgono.

Del testo originale che scrissi a quel tempo non ho cambiato nulla, ed è ovvio che ci siano incongruenze dettate dal fatto che il resoconto è stato stilato man mano che leggevo, oppure abbagli come la musica blu di canne d’organo (ora mi appare come lo svettare di un grattacielo), ma il focus è stato raggiunto.
Quello che volevo era fermare le impressioni prima che fossero confermate dalla lettura conclusa, per mantenere la freschezza delle immagini che mi attraversavano.

A posteriori, rileggendomi, posso affermare che Dhalgren non è un libro facile e che molti, forse i più, lo abbandonano all’inizio: chi sentendosi scaraventato in un universo di idee aliene, chi disorientato dalla densità del linguaggio che assale e satura ogni senso, chi refrattario a lasciarsi andare, perché l’unico modo di accostarsi alla storia è farsi lavagna non scritta su cui lo scrittore possa comunicare. Se è vero che la letteratura ha il ruolo di essere un’ascia per il cervello, Dhalgren è una gran bell’ascia.
D’altronde non è nemmeno un libro che ci si possa proporre di leggere perché è lo stesso libro che chiama, e se non chiama non è il momento di leggerlo. Una cosa posso dire: le mie impressioni sono solo l’ombra di alcune possibili chiavi di lettura. In questo sta l’anticipazione.

Due note brevi sullo scrittore e critico letterario.
Samuel Ray Delany jr. è nato a New York nel 1942 da una famiglia nera molto conosciuta per aver dato i natali a persone chiave in vari ambiti, ed è cresciuto nel quartiere di Manhattan, ad Harlem.
Ha iniziato a scrivere sui vent’anni, pubblicando una ventina di romanzi, storie brevi, oltre a opere di critica letteraria e scritti autobiografici.
Tra i vari premi, nel 2013 ha ricevuto il Damon Knight Memorial Grand Master Award, ritenuto il riconoscimento più prestigioso in ambito fantascientifico.
Il premio, istituito nel 1975 e poi diventato annuale, viene consegnato dalla Science Fiction and Fantasy Writers, la SFWA, associazione nata nel 1965 che raccoglie tra gli iscritti autori che hanno pubblicato professionalmente. È l’associazione che assegna anche il Premio Nebula.

2 - CHIPBrooklynBridgeolymath

Agli amici di Bellona

Scrivo questo commento in tempo reale, cioè man mano che la lettura procede. Per rispetto allo scrittore e all’argomento che mi sembrava impegnativo, dato che avevo colto subito l’anomalia dell’opera. Per la gioia di chi me ne aveva ventilato l’ipotesi della lettura e che non avrei mai creduto così benignamente perverso. Per sfidare la sfida dello scrittore e attirarla nei miei territori. E infine per me stessa.

Il primo capitolo di Dhalgren: PRISMA, SPECCHIO, LENTE

Finalmente mi arriva il libro che ormai disperavo di trovare, ma poi scovato e ordinato attraverso internet: il pacchetto aveva ben pensato di perdersi e di seguire un iter tortuoso su e giù per mezza Italia. Però arriva. Lo apro immediatamente. La prima cosa che vedo è il cartonato editoriale rivestito di una sovraccoperta figurata indecifrabile: che cosa sono? mi chiedo. Le canne sfumate di un organo? L’occhio mi corre subito su una frase di Umberto Eco che l’editore ha pensato di stampigliare sotto i titoli, insieme alle considerazioni di Jonathan Lethem, Antonio Caronia, William Gibson, Theodore Sturgeon sul lato posteriore.
Tolgo la sovraccoperta, perplessa. Quelle canne d’organo che suonano musica blu…
E incomincio a leggere.

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Ho faticato a entrare nella modalità espressiva: la sentivo ostica. Sembra quasi una musica sincopata, un ritmo free jazz… poi mi ricordo che lui, S. R. Delany, è di razza nera. New York. Harlem.
Un tipo di scrittura per cui, aperto il libro, o non lo leggerai mai o lo leggerai fino alla fine. Molto onesto da parte dell’autore.
Già fin dall’attacco il titolo e il resto del periodo sono incorporati in un’unica frase, soluzione inusuale. Solo più tardi mi rendevo conto che sono le parole chiave del primo capitolo, all’inizio perfettamente incomprensibili.
La voce narrante racconta in terza persona e quindi si dà per scontato che sia descrittiva dell’azione, invece l’approccio dell’autore al protagonista e a quello che lo circonda parte dai suoi impulsi e sensazioni interiori (il buio-dentro rispose con il vento). Cioè, un contesto interiore di oscurità si rapporta all’esterno tramite un evento atmosferico (che ha valenze importanti: non parla di pioggia, di sole, di nuvole, di esterna oscurità, etc., tanto per creare atmosfera) e per le seguenti quaranta pagine sempre gli eventi naturali esterni avranno uno stretto rapporto con le sensazioni interiori del protagonista, dove ancora non si capisce se l’origine dei fatti siano le sensazioni interiori o gli eventi naturali esterni.
La situazione è apparentemente insostenibile: non si comprende che mondo sia, di che genere umano si stia parlando, quali priorità segue il protagonista all’interno del suo cammino. Con il primo individuo che incontra ha un impatto fortissimo – nasce dal nulla – ma, poco dopo, non si è nemmeno più sicuri che quell’individuo sia un essere umano.

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Mi viene in mente che non dev’essere una lettura agevole nemmeno in lingua originale. Torno a vedere chi sia il traduttore: Maurizio Noti. Bibliotecario di professione, traduttore per hobby, amante di fantascienza e in particolare di Philip K. Dick. Ha scritto anche della saggistica di fantascienza e un fascicolo dal titolo A proposito di traduzioni. Nel catalogo di Vegetti, Cottogni e Bertoni, figura come il principe traduttore di Philip Dick. Mi metto tranquilla: la traduzione ha tutti i numeri per essere fatta a dovere.
In aggiunta, non ho ancora trovato un errore grammaticale né un refuso tipografico. Anche l’editore mi sembra si sia dato da fare per confezionare al meglio.
L’edizione è uscita per i tipi di Fanucci nel 2005, nella collana Immaginario, e porta una premessa di Willian Gibson dal titolo La città ricombinante, che assolutamente leggerò solo dopo aver terminato la lettura del romanzo. Non voglio che un altro cervello si frapponga fra me e lo scrittore. Dopo, solo dopo, sentirò che cosa ha da dire Gibson.
Dell’autore, Samuel Ray Delany – di cui non ho mai letto nulla – ho voluto solo sapere che è statunitense, nero, nato a New York nel 1942, autore di fantascienza e, chicca finale, glottoteta!… dunque incontrerò nuovi moduli espressivi, rielaborazione e ricostruzione, parole create. Intrigante.
Nella biografia volutamente succinta che mi è capitata sottomano, sembra importante sapere che Delany è bisessuale, come la moglie, e che hanno avuto regolari relazioni omosessuali all’interno del matrimonio: mi chiedo che cosa me ne può importare in fase di lettura della sua opera.
Subito mi viene in mente la narrazione della scena erotica iniziale: ci sono momenti in cui per un attimo non capisci più chi sia lei, chi sia lui, in una totale commistione di corpi. Forse l’atto omosessuale lo ha reso in grado di poter descrivere l’assenza di un’identità maschile predominante o femminile, all’interno dell’atto sessuale.

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Cominciano a configurarsi nella mia testa alcune chiavi di lettura, ma è troppo presto per trovare conferme. Una, soprattutto, continua a venirmi in mente, ma la tengo per me e non so se la citerò a lettura conclusa; ammesso che non trovi indizi tali per cui sembri chiaro che se ne sia servito.
Lui parla di Australia, Giappone, Messico… vedremo. Anche perché non c’è una parola che non sia stata pensata, prima di scriverla. Questo è sicuro. E ogni parola è un segnale. Delany sta preparando un terreno ricco e l’incipit è fondamentale. Ho l’impressione che, alla fine, tornerò a leggere il primo capitolo.

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Mi accorgo solo a pagina 52 (e a pagina 56): c’è una stilettata in prima persona. Ce ne sono altre, prima? Delany prende a inserirsi (e alla luce della ri-lettura finale di questo commento lo farà sempre più spesso), con un periodo che passa quasi inosservato: “Posso quasi immaginare una linea punteggiata dietro di lui”. E poi: “In quest’oscurità, mentre salgo, mi tornano alla mente le stelle del Pacifico.”… “Io la voglio senza seccatura di doverla definire”.
Si entra in piena schizofrenia. È fatta, ormai è chiaro: Kid è l’autore. L’altra faccia dell’autore. L’altra anima. L’altro lui.
L’osservato? O l’osservatore? (vedi Bibliografia Presunta in calce, 4).

3 - Dhalgren Masterworks

Il secondo capitolo di Dhalgren: LE ROVINE DEL MATTINO

La fine del primo capitolo è strettamente legata all’inizio del secondo – non è una cosa ovvia – perché esistono due esperienze contemporanee nello stesso tempo-luogo che appartengono, la prima al passato, la seconda al presente, e la seconda riconduce al passato. E sembrerebbe il motivo per cui Kid, il protagonista, l’ombra dell’inizio che camminava nella notte, non ricorda più il suo nome.
Alla radice della sua amnesia stanno due shock di origine sessuale: il primo, una reminiscenza infantile di quando vede per la prima volta un corpo maschile muoversi sopra un corpo femminile, e per di più in un gioco di gruppo. Lì incomincia ad avere comportamenti schizoidi. Comincia a sentirsi guardato, scrutato, osservato dagli estranei. Unitamente a sentimenti di paura e disistima da parte sua, e boicottaggio sociale a causa della sua origine per metà indiano-americana. La figura del padre, regolarmente assente per lavoro e ancora assente, al suo ritorno, perché ogni attenzione è dedicata alla madre, oltre a essere un militare (il che potrebbe implicare un’educazione rigida), non lo aiuta a far emergere le sue paure e a esplicitarle.
Il secondo shock racconta per traslato la sua prima esperienza omosessuale: Kid lascia fare/Kid bambino lascia fare; Kid fugge piangendo/Kid bambino fugge piangendo. Gli occhi dell’amante Tak Loufer, incontrato sul far del giorno nei sobborghi, sono aperti e rossi.
Delany descrive molte sensazioni con i colori: al bianco dà valenza di suono puro; il nero gli ricorda lo stordimento di un gong e cioè un suono molto forte in cui non c’è né positivo né negativo, ma un qualcosa che si impone con la sua presenza; i colori primari sono “la varietà dell’orchestra”, del suo io-fuori. Solo il grigio è il silenzio (la città è grigia, pagina 79). Ne deduciamo che il rosso è un rumore scioccante, da cui fuggire. Per tornare alla serenità, dal sobborgo si dirige al centro città.
E questi sono gli esordi autobiografici, quindi le origini della vita quotidiana, cioè il suo esperienziale in rapporto a quello che viene considerata l’opinione comune, il comune consenso. Quello che ci fa dire a tutti che l’erba è verde e che l’umanità è costituita da tronco testa e quattro arti.

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Kid, quindi, non ha perso di vista il consenso comune: però non ricorda il suo nome. Pensiamo un attimo a come ci sentiremmo se un mattino ci svegliassimo e non ricordassimo più il nostro nome. La nostra vita è a posto, la casa ce la ricordiamo, ci ricordiamo anche dell’ultima vacanza che abbiamo fatto, però non ricordiamo più il nostro nome. È un problema?
Perdere il ricordo del proprio nome significa perdere la nostra identità? Non credo. Perdere il ricordo che l’erba si chiama “erba” è perdere il senso dell’erba? Essere un noi senza nome significa non-essere-noi? Allora noi che cosa siamo: un nome?
Kid sembra di non essere di questo parere. Il suo io-dentro gli dice che è un’unità pensante e sensitiva. Il consenso comune gli dice che è pazzo; per lo meno, in passato gli aveva detto che era pazzo. Lui non è diverso, ora che è fuori, da quando era rinchiuso: lo sa. Che cosa è cambiato? Semplicemente ha capito che, se vuole girare per la città grigia, deve conoscere un linguaggio che non è il suo e fingere di usarlo come se fosse il suo. Tutto sta in un “come se”. Anche all’interno di una comunità di pazzi.
E se la città grigia fosse un manicomio?

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Il quaderno che Kid si porta appresso (ci accompagnerà per tutto il romanzo), sembra essere la punta di diamante dei suoi pensieri più profondi, e nel corso dell’azione diventa non solo suo, ma anche di Delany: È la nostra disperazione per le inadeguatezze esteriori del linguaggio che ci porta ad accrescere quelle strutturali verso[/s]” (pagina 99, così nel testo). “Ma questo è il problema di un’intera parte di umanità, convinta di comunicare attraverso la parola!”.
Kid, in fondo, forse decide di non ricordare più il suo nome: l’amnesia non permette all’esteriore di chiamarlo, cioè di definirlo, cioè di inquadrarlo entro una inadeguatezza verbale in cui non si sente corrisposto. Questa è la sua rivincita.
Infatti Kid è solo il nome che Tak Loufer gli darà, per darsi il modo di prendere possesso del suo corpo.

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I toni si fanno in apparenza sempre meno schizofrenici – se non fosse per quella luna doppia, di cui una si chiama George, L’Eroe-Bestia (non sarà una tesi junghiana allo specchio?) – man mano che Kid trova in Lanya un’amica e compagna amorosa (forse il simbolo letterario della moglie di Delany?). E questo mi fa pensare che l’omosessualità di Kid-Delany non sia vissuta con equilibrio.
Nell’amore con una donna pare che anche il grigio (che prima sembrava avere una valenza calmante di silenzio, ma che adesso percepisco come un silenzio mortifero), ora cominci a stridere (pagina 105) e si vedono i primi impulsi di ribellione a una “nebbia” che in realtà non offre “nessuna protezione”… “È piuttosto una griglia rifrangente attraverso la quale osservare la macchina violenta, esplorare la tecnocrazia dell’occhio stesso, penetrare nel canale semicircolare. Sto viaggiando lungo il mio nervo ottico”.
E sempre a pagina 105, foriera di non apparenti colpi di scena, nel frattempo il quaderno sembra registrare il tempo in cui era rinchiuso in manicomio, quel tempo in cui dicevano che Kid era pazzo: “Quasi tutto ciò che succede qui, ora dopo ora, è calmo e monotono. Per la maggior parte del tempo ce ne stiamo seduti…”.
Kid sta percorrendo, nello stesso istante, un viaggio a ritroso nel passato per ricordare e guarire, un viaggio nel presente per agganciarsi alla realtà, un viaggio nel futuro per ri-costruire il passato. Sta percorrendo un viaggio guardando il tempo come un cubista potrebbe guardare un oggetto.
La quarta variabile che tiene insieme tutto, prima che crolli, è Delany-l’osservatore che, nello svolgimento della finzione letteraria, diventa Delany-l’osservato. E lo sfida a rendersi intellegibile.

4 - Delany

Il terzo capitolo di Dhalgren: LA CASA DELL’ASCIA

A riprova di quanto detto poco fa, esaminiamo (non posso credere che Delany sia stato così magnanimo nei confronti del lettore da citarli, anche se indirettamente al contesto, attraverso il giornale della città; questo mi fa pensare di stare in guardia); esaminiamo, dicevo, gli scrittori da cui, in qualche modo, ha attinto ed estrapolato temi.
Il primo, e il più significativo, è Ernest Newboy, diplomatico e letterato, candidato per tre volte al premio Nobel, autore fra le altre cose di Il Monumento, una “storia inquietante e simbolica della dissoluzione psicologica e spirituale di un intellettuale australiano deluso che si trasferisce in una città tedesca distrutta dalla guerra”. Famosissimo e tenuto in grande considerazione dai contemporanei, grande viaggiatore e attento conoscitore dei Maori, decide di fare una capatina a Bellona.
Miguel Angel Asturias, scrittore guatemalteco, Premio Nobel 1967 per la letteratura, ospite illustre in Europa e in varie nazioni latinoamericane, profondo conoscitore del popolo indio latino americano e di una civiltà maya vissuta dal-di-dentro, agguerrito esiliato a causa della dittatura e di ogni dittatura.
Giorgios Seferis, poeta greco, Premio Nobel 1963 per la letteratura, in esilio dall’Anatolia, ospite illustre in Europa, Africa e Medio Oriente, severo contro ogni forma di tirannia e solidale con chiunque goda di una forma di esilio, che siano civiltà o popoli.
Saint John Perse, poeta e scrittore di lingua francese, nato nella Guadalupa, un’isola delle Antille, Premio Nobel 1960 per la letteratura. Per motivi politici la famiglia fu sradicata dalla Guadalupa dove risiedeva da generazioni, e arrivò in Francia. Diventato diplomatico prese a girare per l’Europa e approdò in Cina, dove fece il vero apprendistato politico ed entrò in contatto con la spiritualità del luogo. La sua carriera diplomatica decadde velocemente in seguito alla sua opposizione per la cessione della Cecoslovacchia alla Germania (1938); in seguito approdò negli Stati Uniti. I suoi connazionali cominciarono ad apprezzare le sue opere solo dopo il Nobel.

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Sono quattro grandi scrittori, di cui uno evidentemente di fantasia (Ernest Newboy), collegati da simili percorsi politici, simili ideali, profondamente attenti a civiltà diverse, e coscienti che la conoscenza del diverso va vissuta in prima persona.
Kid è per metà indiano americano, Delany è nero.
Mi sembra chiaro, a questo punto, che Dhalgren sia anche un romanzo profondamente politico, e di quale politica lo spiegano bene i suoi gusti letterari.
L’incognita resta Ernest Newboy (new boy?), l’unico non ancora premio Nobel, ma candidato. Sarà la chiave di volta per capire il non-assetto politico-sociale della città? E se gli verrà in mente di stabilirsi e di darle un assetto politico-sociale, non è che la distruggerà?

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Mentre Ernest Newboy fa il suo ingresso in città, Kid pensa bene di trovarsi un lavoro. Anzi, il lavoro trova lui. Pare che l’amore con Lanya in qualche modo lo riequilibri e che stia iniziando a realizzare un minimo di sistemazione.
Questo equilibrio è così forte da fargli scrivere, e dedicare una poesia alla ragazza. Finora avevamo creduto che fosse un imbecille che scrivesse tre parole e ne cancellasse quattro, ma pare che abbia del talento. Lanya approva. Sono gli esordi letterari di Delany?
Trovo conferme a questa supposizione nel momento in cui Kid incontra chi gli darà un lavoro: una famiglia di buoni valori borghesi decisa a rimanere in città, a Bellona. Famiglia completamente avulsa da ciò che la circonda: trova la sua medicina alla pressione esterna rinchiudendosi in se stessa e accettando passivamente il di-fuori come una calamità, convinta che ad aspettare le cose ritorneranno a condizioni normali. Convinta, soprattutto, che qualcun altro troverà una soluzione a questa calamità.

Trovo altre conferme quando Kid scopre che, proprio dove si vuole vivere un’apparenza di normalità, si cela la pazzia più grande, quella di creare un contesto di pazzia entro la pazzia stessa.
A volerla guardare con certi occhi, sembra infatti che metà di mille siano in cura da Madame Brown, dottoressa a riposo divisa tra una psicologia gestaltica e una comportamentistica, la quale elabora eroicamente una soluzione empirica e fattibile da subito: “Andare avanti e basta” (pagina 174). Lei ci aveva provato a dirlo ai genitori dei bambini autistici che chi era da curare erano i genitori, non i bambini. Ma ora “in ospedale non c’è più nessuno” (pagina 176).
Mi viene in mente che la normalità sia conoscere i confini della propria pazzia e comprendere dove inizia e finisce la pazzia dell’altro. Ma questo è un altro discorso.
Alla cena della famiglia “normale”, dicevo, Kid scopre di essere un poeta. E ne avrà la certezza quando, la sera, incontrerà al bar Ernest Newboy (pagina 184).
Il quaderno, di cui si parla durante la cena, diventa la sua autoanalisi all’interno del processo di scrittura creativa che sente instaurarsi in lui; processo che, tra l’altro, si innesta sulla scrittura di un altro poeta (Mallarmè per adesso, pagina 144), perché lui scrive sulle pagine di sinistra lasciate bianche da un precedente possessore che scriveva su quelle di destra. Sono quasi sicura che il precedente possessore è lui stesso, in un tempo anteriore. Sulle funzionalità di emisfero destro e sinistro c’è un’ampia letteratura, pronta per essere consultata.
In questo caso, il suo scrivere sulle pagine di sinistra significa dare un contesto logico alla somma di esperienze acquisite; ma in senso letterario significa provocare un valore creativo comprensibile del prodotto delle conoscenze letterarie acquisite (letture, esperimenti di scrittura in proprio, progetti, etc.), cioè scrivere da scrittore, da poeta.
Ne esce una ulteriore chiave di lettura di Dhalgren: quella letteraria, in tutti i sensi. Come processo creativo, come cultura in senso di somma di letture, come critica al ruolo dello scrittore nella società, come qualità del raccontare un diverso vissuto dal di-dentro (non solo prisma e specchi, ma anche lenti).
Eh sì… le cose apparentemente più difficili sono le più semplici: i libri più complicati sono i più semplici. Basta credere a quello che c’è scritto, ma per farlo occorre calarsi nella realtà della finzione. Non ho mai visto un bambino far finta di credere al lupo di Cappuccetto Rosso, ci crede davvero.
Resta solo da capire se apparteniamo al di-fuori di Kid o al di-dentro della famiglia Richards, a prisma-specchi-lenti o a un semplice trasloco (rimosso del rimosso)?
Perché, se apparteniamo a prisma-specchi-lenti, credo che avremo una qualche probabilità di uscire da Bellona.

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Continuo a ritenere di scegliere, man mano che la lettura procede e fra la ricchissima sequenza di segnali che Delany continua a offrire, solo quegli elementi che ritengo più eclatanti. Diversamente sarebbe necessario scrivere un altro libro. E volutamente tralascio il bagno e i vestiti sporchi sopra un corpo ripulito; l’analisi dei singoli componenti della famiglia dei quali uno – June – Kid ha già fatto conoscenza… ma quando?; i mobili della stanza dove traslocherà; l’uso di Kid, kid e Kidd (pagine 273, 274: Kid individuo, kid una cosa, Kidd un amico-compagno e comunque un kid-quid sempre chiamato, non che si chiama).

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Il lunghissimo terzo capitolo, in ogni caso, mi appare come una ulteriore messa a punto di chiavi di lettura e tematiche che l’Autore ha già affrontato nella genesi del libro, e in forma larvale. Su tutte, in questa sezione, primeggia la chiave letteraria: concetti di estetica, nuovi moduli di scrittura, analisi musicale di come il pronunciato debba essere riversato nella parola scritta, esperimenti di traslitterazione della modulazione della voce nello scritto, valore della poesia e della sua pubblicazione, etc. (alcune delle pagine interessate sono 186, 191, 238, 296, …).

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Temi ancora in fase di preparazione, e che avranno bisogno di un ulteriore svolgimento, mi sembrano essere quelli della morte (la tragica fine del figlio Bobby che, alla fine del capitolo, la famiglia ha in tutta fretta e magistralmente rimosso, con costernazione di Kid il quale si chiede perché si sia dato tanto da fare per riportarlo al piano 17 se nemmeno la sua morte riesce a incidere la patinata realtà della famiglia); quello politico-sociale (il manifesto di George Harrison che cosa è se non la rivalsa sciagurata di una minoranza nera che trova il suo eroe in uno stupratore? e per di più distribuito da un reverendo-donna-simbolo di una religione “popolare”), i valori economici di una società dove non si paga con il soldo, anzi non si paga più; lo stato dell’ordine con le sue problematiche di ordine pubblico (la frangia estremista degli scorpioni sembra fungere da polizia). Infine il mondo femminile, l’Altro (sortita di Milly e dell’amica Lanya, quest’ultima una sorta di silfide impermeabile a ogni tipo di sopruso).

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Il quarto capitolo di Dhalgren: IN TEMPO DI EPIDEMIA

Nel quarto capitolo Kid entra in uno stato apparentemente confusionale.
Il tema principale sembra essere quello letterario-poetico (Frank, pagina 326; Newboy gli propone di dare alle stampe le sue poesie, pagina 331), ampliato attraverso il racconto che fa di sé Lanya dove arte, psichiatria e religione sembrano darsi la mano per promettere “il senso di un valore e di un significato interiori, e consumano molto tempo a spiegarti la sofferenza che bisogna sopportare per raggiungerli” … “Si trovano tutte in uno stato di instabile tregua fra loro, in quella che in effetti è una battaglia mortale” … “la religione e l’arte sono ambedue forme di pazzia e la pazzia è il regno della psichiatria” … “Ho rinunciato (Lanya, n.d.r.) anche alla psichiatria, ben presto. Non avevo la minima voglia di farmi imprigionare da un sistema” (pagina 343).
Fino al momento in cui, giorni dopo – o un giorno dopo per Kid, il quale sembra essere entrato in un suo tempo tutto personale – Newboy ritrova Kid e gli chiede le bozze per la correzione.
Attraverso la bocca di Newboy, Delany fa una distinzione tra scrittore-poeta e scrittore-poeta-europeo, tra due diverse letterature, quella statunitense e quella europea dove la prima, con forza, “lancia le sue parole negli stagni del nostro pensiero. Se gli spruzzi sono precisi, le onde sono tremende, e luccicano e sfavillano alla luce della nostra coscienza” (pagina 400).
La seconda, invece, le “lascia cadere. La precisione è di nuovo tutto: ci sono alcuni che riescono a fare centro da quattrocento metri, mentre altri non sono capaci di colpire il bersaglio da quattro”, … quest’ultimo artista “in verità, trascorre gran parte del suo tempo semplicemente guardandovi dentro” (nello stagno, n.d.r.).
L’analisi estetica si spinge fino al rapporto tra bello e brutto, scritto-bene e non-scritto-bene (pagine 403, 404). Fino al rapporto tra personaggio e scrittore: “se un autore, passando davanti a uno specchio, un giorno dovesse vedere non se stesso, ma qualche personaggio di sua invenzione, pur rimanendone sorpreso, e pur potendo anche mettere in dubbio la propria sanità mentale, avrebbe ancora qualcosa a cui riferirsi. Ma se invece il personaggio, passando all’interno, dovesse dare un’occhiata allo specchio e vedesse non se stesso, ma l’autore, un completo estraneo, che lo guarda, uno con cui non ha la minima relazione, che rimarrebbe a questa povera creatura?” (pagina 410).
All’interno di questi incontri di Kid e dei dialoghi che ne seguono, c’è una vera e propria profusione di scrittori che si succedono, l’uno dopo l’altro, a spiegare di che cosa si sia nutrito Delany, e che citerò in quella che ho denominato Bibliografia Esplicita.

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In verità, il vero tema conduttore del quarto capitolo sono i moduli di cui si serve Delany-Kid per esplicitare la narrazione: 1) visione Prismatica come processo di conoscenza acquisita, valutando contemporaneamente tutti gli aspetti possibili dello sperimentabile, 2) visione con Lenti come processo di conoscenza acquisita, valutando il particolare rispetto al contesto globale, quasi ci si avvicini all’esperienza usando una lente di ingrandimento o un microscopio, che in se stessa farebbe perdere la possibilità di una visione globale, ma che non succede in virtù della visione prismatica, 3) visione con Specchi come processo di conoscenza, acquisita valutando l’immagine speculare dell’esperienza, dove per esempio la destra è la sinistra; una sorta di negativo; oppure valutazione di un sopra e un sotto.
E tutti questi approcci, nota bene, all’interno di uno stato di veglia oppure di sogno. Perciò non tre, bensì sei processi di conoscenza.
A questo si aggiunge, anzi, confluisce e primeggia nella tesi centrale del capitolo, il colloquio tra Tak Loufer (la prima persona che Kid incontra entrando in città) e Kid, dopo che Kid sembra essere sparito per cinque giorni (lui insiste col dire che è stato uno, e sosterrà la sua dimensione temporale anche con Lanya).
Evento dove finalmente Delany comincia a scoprire qualche carta finora occultata: Bellona parrebbe proprio essere una sorta di anomalia spazio-temporale, una specie di universo parallelo dove le leggi fisiche sono diverse seppure simili. Il sole nascosto dal grigio sembra sorgere da diverse direzioni, la dimensione di profondità cambia a seconda dei giorni, ci sono edifici che bruciano per giorni e poi tornano a essere mai bruciati, due lune spuntano una sera in cui per un attimo il cielo si fa sereno in qualche punto, Kid sperimenta avvenimenti nell’arco di una giornata che invece agli altri appaiono suddivisi nell’arco di cinque giorni. Inoltre, anche questo processo centrale di anomalia va valutato alla luce di un io-dentro e un io-fuori.
La tranquillità del lettore sta nel constatare che proprio Kid, che dovrebbe essere il pazzo, sembra essere la persona normale, quella che sa trovare soluzioni alle difficoltà altrui.
Lui non parla, ma agisce. Oppure parla poco, e se parla lo fa quando proprio è necessario farlo. Soprattutto mantiene un baricentro in grado di dare un senso a Bellona, e a se stesso di proporsi con un senso etico. Quasi fosse uno strumento consapevole-inconsapevole di tutto quello che non è se stesso, che lo attraversa e, dopo essere rifluito da sé, acquista una dimensione.
Quel particolare ossessionante del suo unico sandalo (Kid cammina con un unico sandalo) che più tardi diventerà un unico stivale, fa pensare a un essere che cammina in bilico su due mondi: una natura selvaggia e primordiale, vergine (il piede nudo) in grado di accettare con un occhio innocente quello che gli viene incontro; e una natura strutturata sul sociale (il piede calzato).
Il nostro eroe affronta il di-fuori vivendo con la stessa intensità entrambe le sue due nature: l’una non soggiace all’altra. A riprova, più volte si viene a sapere che Kid usa indifferentemente la mano sinistra o quella destra.
Si obietterà che questo può portare solo alla pazzia (qualche volta in effetti Kid ha trascurabili problemi di orientamento), e infatti Kid si definisce pazzo, ma nel suo intimo sa perfettamente che, per poter sopravvivere a Bellona, deve continuamente usare e dare un costante equilibrio ad entrambe le nature, se vuole originare un pensiero sensato, perché è Bellona stessa la pazzia. O meglio, l’Ignoto.
Che parametri abbiamo per conoscere l’ignoto? Possiamo usare gli stessi parametri che usiamo per conoscere il non-ignoto?
Qui si inseriscono per bocca di Tak Loufer le tre regole della fantascienza (pagine 423, 424), o meglio, i tre parametri che fanno la fantascienza, dove per fantascienza si intende una fantascienza “reale, che segue tutte le convenzioni”: 1) il libero arbitrio dell’uomo può cambiare il corso degli eventi, 2) la misura dell’intelligenza o del genio è la sua applicazione pratica e lineare, 3) l’Universo è un luogo pieno di pianeti terrestri.
L’unica domanda a cui non sa rispondere Tak è: il tempo, qui a Bellona, va all’indietro o scorre in senso ortogonale? Nulla di tutto questo, afferma dubbioso: palazzi bruciano per giorni, e poi ripassi per la stessa strada giorni dopo e non sono mai bruciati, ma alcuni sì; negozi svaligiati, e poi ci ripassi tempo dopo e li ritrovi pieni come quando li avevi svaligiati; palazzi in cui funzionano un unico ascensore e soltanto le luci dell’ultimo piano quasi che i palazzi godano di una volontà propria; “io sono solo un ingegnere” dice Tak, e non gli risulta che le cose dovrebbero andare così…

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A ondate aleggiano le riflessioni di Kid: “È solo quando siamo privati di uno scopo, che sappiamo chi siamo” (pagina 373), e ancora: “Libero da un nome e da uno scopo” … “non posso fidarmi né dei miei occhi né delle mie mani” … “La realtà?” … “il reale tutto mascherato da una pallida diffrazione” … “Sono solo, e tutto il resto riesco a sopportarlo” (pagina 434).

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Il quinto capitolo di Dhalgren: CREATURE DELLA LUCE E DELLE TENEBRE

Alla fine del quarto capitolo, quando Kid acquista quel senso di solitudine così pregnante – che si avvicina alla consapevolezza della presenza della morte – da fargli dire “Sono solo, e tutto il resto riesco a sopportarlo”, Delany aggiunge: “E si domandò come mai la solitudine, in lui, si trasformasse quasi sempre in una sensazione sessuale”.
Negli individui che non hanno un retroterra mistico (che Kid deve ancora dimostrare), il senso della fine sfocia spesso nell’atto sessuale, che è poi una morte simbolica.
Buona parte del capitolo quinto occupa la descrizione di pratiche sessuali con il proprio sesso e con il sesso opposto, a più riprese e contemporaneamente fra diverse persone (il piccolo Denny, la ragazza di Denny e, infine, la salvatrice Lanya).
Con Denny l’atto sessuale mostra più una sorta di training pedagogico dove Kid porta il ragazzino a liberarsi di un blocco che non gli permette di amare fisicamente la sua ragazzina, a sua volta coinvolta in un secondo momento in un amore a tre, nel quale Kid funge quasi da maestro d’orchestra. Un Kid da cui, però, la ragazzina fuggirà sconvolta perché in realtà ama Denny. Non lo fa per “gioco”.
D’altra parte Kid, con Denny, sembra farlo più per un senso di dovere che per vero piacere. È solo con l’arrivo di Lanya che ritrova una sua equilibrata felicità, e i due non sono disturbati affatto dalla presenza di Denny in mezzo a loro, che ha la duplice funzione di essere istradato a un amore eterosessuale (come fai a dire di essere omosessuale solo perché non sei capace di essere eterosessuale?) e, in secondo luogo, di interpretare una sorta di cuscinetto tra Kid e Lanya. I quali si erano lasciati quasi arrabbiati per quella malintesa sensazione del tempo che li aveva divisi per un attimo. Quella che fa credere a Kid di essere stato assente un giorno, e a Lanya un’intera settimana.
Domanda che Kid non ha ancora risolto ma che, discussa con Lanya, sembra perdere un poco il risvolto terrificante che comporta: sto ridiventando pazzo?

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Data una soluzione alla solitudine che era un tema già configurato nel capitolo precedente, prende forma il vero motivo dominante di questo capitolo: nel cielo splende un astro enorme che copre buona parte del cielo. La gente è sconvolta, piange, non può credere, scappa, crede che sia giunta la fine del mondo. Kid ride.
Qui si inserisce la religione che, insieme all’arte e alla psichiatria, erano delle chiavi di lettura precedentemente dichiarate esplicitamente da Delany.
Attraverso il colloquio con il comandante Kamp, astronauta quasi in pensione e secondo ospite estemporaneo di Bellona subito dopo la partenza di Newboy, ma soprattutto attraverso gli spezzoni del sermone del reverendo-donna Amy Taylor sulla Jackson Avenue, comincia a configurarsi una ideologia a metà tra l’inefficacia scientifica alla possibilità di spiegare tutto e l’impossibilità a definire Dio.
Mentre il comandante Kamp confessa che dopo l’atterraggio lunare – cioè il momento in cui non era più la Luna a essere l’Altro ma lo diventava la Terra – nulla più nella sua vita è stato lo stesso, il reverendo Taylor distrugge la mitologica isterica finzione collettiva che identifica nell’eroe nero George Harrison la doppia luna notturna, e il grande disco solare insanguinato apparso in giornata in June. Come a dire: di fronte all’ignoto si cerca di dargli un nome.
Perfino il giornale quotidiano, il Times – che un giorno esce di martedì e il giorno dopo di venerdì – ammette che “certe immagini (il disco solare) perdono la loro libertà e risonanza se, quando le consideriamo con serietà, lo facciamo attraverso la diffrazione di un nome”. E il reverendo Amy Taylor aggiunge che anche Bellona è una città cancellata dal tempo, anch’essa sull’orlo di verità e menzogne, dove ancora una volta si naufraga nell’ “abbondanza del linguaggio” e nella “cenere fuggevole del desiderio” (pagine 531-532).

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Ma che sorta di città è Bellona?
Finalmente lo si capisce da alcune considerazioni di carattere estetico, dove l’immagine aiuta più della parola.
Tra gli strani oggetti che Denny mostra a Kid e a Lanya lassù, nel soppalco, c’è un libro “stranissimo” come lo definisce Denny (pagina 482). E nel quale Lanya riconosce immediatamente le incisioni di Maurits Cornelis Escher!, formidabile creatore di paradossali costruzioni impossibili che tanto sono piaciute a matematici, logici, fisici e scienziati.
Mi viene in mente La biblioteca di Babele di Borges, con i suoi infiniti luoghi spaziali e temporali, gli specchi, i labirinti. Aggiungo subito quest’ultimo alla Bibliografia Presunta.
Delany sta costruendo, ha costruito, costruirà Triangoli di Penrose, Cubi di Necker, Effetti Droste, Triangoli di Sierpinski, autoreferenza (Ouroboros), Nastri di Mőbius, frattali a sviluppo infinito, moti perpetui, tassellazioni dello spazio, Dischi di Poincaré… E con che cosa? Con delle parole.
Per chi non capisce equazioni e geometrie, basta ricordarsi di quei sogni perfettamente congruenti in cui dimensioni, aspetto temporale e logico, spazio, sono in perfetta contraddizione; eppure un significato ce l’hanno. Per induzione matematica, ci sta dicendo che Bellona è retta dagli stessi principi di qualunque altro luogo, anche se a Bellona valgono costruzioni impossibili, e però rappresentabili in virtù della percezione e della prospettiva (anche e soprattutto mentale, aggiungo io).

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Considerazioni di carattere teatrale porteranno Kid a riprendere in mano la penna e a scrivere, dopo aver dato per scontato che non l’avrebbe più fatto, in seguito alla correzione delle bozze del suo libro Orchidee di ottone.

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Il sesto capitolo di Dhalgren: PALINSESTO

Durante lo svolgersi degli eventi, Delany ci sfila una lista di nomi, maschili e femminili, che Kid scorre leggendoli sul suo quaderno. E lo fa più di una volta (pagine 82, 596, 599, 653).
Come molti particolari del libro anche questa lista va nel dimenticatoio e solo a pagina 653, quando Kid restringe la rosa dei nomi dopo un sonno agitato, mi accorgo quanto siano importanti: i nomi sono Peter Weldon, Susan Morgan e… William Dhalgren. Da non dimenticare che all’inizio, quando Kid legge la lista, Lanya gli chiede se qualcuno dei nomi non appartenga a lui. Kid esclude assolutamente. Eppure Delany intitola il libro Dhalgren. Chi è Dhalgren?

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I motivi e gli argomenti del sesto capitolo sono molteplici, quasi Delany si renda conto che la storia stia giungendo alla fine e abbia la necessità di coinvolgere ogni possibilità interpretativa in una farandola di eventi, pressante e densa di azione. Motivi e argomenti sono coinvolti nell’ambito di uno stesso avvenimento.
Il tema razziale spunta ovunque: nella vecchia negra nascosta nella scuola, mentre Lanya compone il brano musicale Diffrazione con l’aiuto di Kid e Denny.
All’interno di quest’unico evento si parla anche dell’atto di creare musica, della funzione e del ruolo dell’arte oggi nonché del ruolo dell’artista (Lanya dirà: “l’unica cosa che riuscivo a pensare era quanto fossi stata fortunata per avere preso la decisione di non diventare un’artista, o una scrittrice o una poetessa” (pagina 582). Perché il senso che Lanya trova in un artista è quello di un cieco che conduce un cieco. Lei non crede sia possibile utilizzare un’esperienza perfettamente reale come quella (aveva appena finito di raccontare una storia) in un’opera d’arte al giorno d’oggi”.
Sempre tema razziale è, alla festa a cui tra poco parteciperanno, lo spettacolino inscenato sul momento da alcuni scorpioni di pelle nera che penzolano come scimmie dagli alberi.
E lo è anche quando, di ritorno dalla festa, l’antieroe George Harrison convincerà Kid a salvare dei bambini da un incendio: un nero “cattivo” che coinvolge un bianco “buono” in un’opera di salvazione. I due super-eroi si incontrano e uniscono le forze.
Festa che, tra le altre cose, Lanya definirà “attenzione rituale del genere che si concede a un eroe della società” (infatti la festa era la festa di Kid, indetta dal governatore Calkins per la pubblicazione di Orchidee di ottone).

Ma c’è anche un tema sociale scottante, quello del giudizio della comunità verso il reato, spesso applicativo di pena di morte.
Quando Kid difende Dollaro dirà “un branco di individui che si mettono insieme e decidono di uccidere una persona perché per loro è qualcosa di ammissibile o di conveniente, questo è sbagliato!”
A conclusione del diverbio, Delany fa pronunciare a Lanya un nome, buttato lì, nemmeno glielo fa finire di pronunciare e poi cambia l’azione: “Donatien Alphonse François de” (Sade). Che cosa intende? Filosofia radicale, tema della libertà, illuminismo materialista, esistenzialismo, nichilismo. Che cosa intende?
Dimenticando la copia del suo libro di poesie (che non riesce a leggere, non sa leggere il suo libro), Kid ritorna al suo taccuino. Dietro l’elenco dei nomi ci sono note, quelle non sue. Siamo sicuri che il quaderno, prima appartenuto a un altro individuo, non sia di lui stesso in un’altra diffrazione temporale?

Altre branche del sapere umano si sommano: filosofia, antropologia e linguistica diventano letteralmente gli specchi di un’informazione che si adatta “dentro, sopra e intorno alla mente” (pagine 597-598). Dietro Wittgenstein, Lèvy-Strauss e Chomsky che fanno complicate e logiche discussioni, c’è in realtà il desiderio-necessità di mantenere quello che Delany definisce “interesse per il dialogo che si propaga nell’orecchio interno”. Quello che Delany suppone che i tre volessero raggiungere: una sintesi linguistica.
Nel clima congruamente schizoide a cui Delany ci ha elegantemente introdotto compaiono le amnesie di Kid, per cui il prossimo a lui vicino diventa specchio della risposta alla sua domanda (Nel posto da cui veniamo c’era un soppalco? chiede Kid a Denny, pagina 605). Sì, c’era.
Compaiono i racconti di esperimenti con l’LSD del comandante Kamp, l’astronauta, il quale racconterà a Kid che il sovraccarico sensoriale è in realtà una deprivazione sensoriale, perché la mente può registrare un solo semplicissimo infinitesimo particolare di una realtà e riconoscerla. E dove invece gli schemi consueti vengono meno e la mente non riesce a codificare, allora la mente paragona e dice è come se…, assomiglia a…”, ma non sa spiegare. Lui, astronauta, non sa spiegare come è la Luna. Dice: quando tornai “mi limitai a parlarne nel modo in cui tutti quelli che non si erano mai trovati in quella condizione mi avevano detto che doveva sembrare”.

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L’intervista che Bill farà a Kid verso la conclusione della festa, e che a poco a poco acquisterà un pubblico silenzioso assiepato intorno ad ascoltare, culminerà nella disarmante confessione di Kid: “immaginiamo che a qualcuno piaccia quello che ho scritto. Io vorrei fare in modo che quello che ho scritto qui significhi qualcosa per lui. Immaginiamo che a qualcun altro non sia piaciuto. Io sono uno snob. Mi piacerebbe saper parlare anche a lui. Ma parlare a qualcuno con cui ti sei trovato bene e parlare a qualcuno con cui ti sei trovato male, be’, sono due cose molto diverse. C’è ben poco in comune in quello che puoi dire all’uno o all’altro. Forse, chissà, io ci sono riuscito”.
Kid è perfettamente cosciente dei motivi del suo successo di artista, di poeta. E Delany?

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Il settimo e ultimo capitolo di Dhalgren. GLI ANATEMI: GIORNALE DELL’EPIDEMIA

L’ultimo capitolo di Dhalgren parte a ritroso nel tempo e, dal punto di vista dimensionale, è il più schizofrenico di tutti: ci sono tre voci parlanti – ottenute attraverso una sintassi e una linguistica doppia, anzi tripla se teniamo conto del corsivo.
Dal punto di vista scientifico è la soluzione a “l’osservato modificato dall’osservatore”, perché esiste un terzo punto di vista, quello di chi rimane a Bellona, cioè il Times.
È anche un corollario a questioni lasciate in sospeso, come il rapporto tra politica e religione, arte e politica, cosmologia planetaria e letteratura, malattia mentale e socialità. Tutti i temi, spaventosamente tanti e tanto sviscerati, che Delany ha toccato nel corso del romanzo.
Tra cui:

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– verità e falsità degli avvenimenti eroici, di quei particolari istanti (che non sono la vita di una persona, ma attimi) e che ti fanno dire: “Quello che ci dà l’impressione di fare e quello che ci si sente di fare sono due cose così dissimili da azzittire qualsiasi bocca che si azzardi a tentarne una descrizione precisa!” (pagina 741).
Mi viene in mente il “doppio gioco” (giogo?) dell’eroe di C. G. Jung. La gente parla, cercando di trasformarti in qualcosa che non sei. E dopo un po’, tu stesso quasi non sai più quello che hai fatto e quello che non hai fatto” (pagina 770).
E allora l’eroe torna a casa, torna al tempo del Femminile, non come contrapposto a maschile ma come nuovo modo di dirsi e sentirsi umanità, perché la consapevolezza del femminile non inneggia a se stessa e non chiede di essere celebrata, unicamente interessata a un attributo di universalità (C. G. Jung? ma perché no… magari anche Rilke?, pagina 771)

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– la sensazione del tempo, dove ore minuti e istanti sono dolorosamente reali e invece i giorni e le settimane diventano i rumori residui di una lingua morta” (pagina 777); ma, per questi ultimi, è anche “difficile da decidere quali avvenimenti si siano verificati per primi” (pagina 779).

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– la differenza tra Repubbliche Megalitiche (Repubblica degli Stati Uniti d’America, Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Repubblica Popolare Cinese,…) e popoli che vivono in piccole nazioni: “Non c’è un posto in Europa in cui si possa proseguire dritti con un mezzo di trasporto meccanico per più di otto ore senza imbattersi in una lingua diversa, una moneta diversa, una cultura diversa! Come pensano che sia possibile insegnare tremila anni di politica europea ai bambini americani… ?” (pagina 788).
Mi dico: che cosa succede alla letteratura in una repubblica megalitica? E di riscontro, visto che sono europea, alla letteratura di un piccolo stato che cosa fa attraversare il suo confine, invece?
Kid si chiede, a proposito della sua raccolta Orchidee di ottone: “Ma c’è in essa qualche verso che sia comprensibile anche al di fuori dei limiti della città?” (pagina 839)
Bellona non è una repubblica megalitica. Il comandante Kamp, astronauta, se non riuscirà a capire con il suo telescopio dove si trova Bellona, dice che se ne andrà (pagina 789).

Allora Bellona esiste perché Delany vive in una repubblica megalitica? Io non potrei immaginare un europeo che scrive Dhalgren. Dhalgren-Delany è un prodotto americano.
E repubblica megalitica e piccola nazione risultano essere un fattore di vitale importanza nella letteratura fantascientifica. La comunanza della lingua non è un fattore foriero di qualità, ma solo di quantità.
Delany si chiede: se “il linguaggio è sempre in eccesso rispetto alla poesia, così come la stampa è sempre inadeguata rispetto al linguaggio” (e dal punto di vista formale potrei capirlo; pagina 790), non sarà che la repubblica megalitica conduca a un indebolimento della comunicazione artistica? La quale si deve attivare per reagire alla depauperazione della parola, una parola sempre uguale per migliaia di chilometri?
Sempre uguale sì, ma la parola water ha valenza diversa per il californiano rispetto all’americano che vive in prossimità del deserto in Arizona. Eppure parlano la stessa lingua e battono la stessa moneta.
Il sangue di cervo è ottimo come esca per catturare le mosche. E anche la cacca secca di vacca. Belando nel vuoto oricolare, pensi che Atocha sia a Madrid, che dire allora della Novantaduesima, o di ciò che lei mi disse di St. Croix?” (pagine 813-4-5) Sperimentazione, parole in libertà, linguaggio schizofrenico che abbina musicalità e ricerca semantica e lessicale. Richiede non tanto comprensione razionale quanto semplice abbandono all’ascolto, risponde il traduttore nella nota a pagina 815.
Dopo aver letto l’ultima parte citata appena un istante fa, se penso al cervo, non posso non pensare a qualcosa che abbia una valenza di esca. Voi no? E se penso ad Atocha, non penso più alle bombe che ci hanno buttato, ma sono indecisa se affermare che la mia periferica telefonica sia un supporto auricolare oppure oricolare (os, oris = bocca, della bocca).
Per questo sono parole in libertà.
Così, quando Delany ri-nominerà il cervo, magari mentre uno scorpione fa la doccia, come potrò non pensare che stia per succedere qualcosa di sanguinoso?

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– la differenza tra buono e cattivo, quando Calkins sofferente, dietro la grata del monastero dove si è rifugiato per capire la sua generale insoddisfazione, dice “per essere un buon governante, se non è assolutamente necessario essere un uomo buono, è certamente di inestimabile aiuto” (pagina 828), e la conseguente giustificazione nei rapporti tra politica e religione: “c’è sempre una strana relazione fra il capo dello stato e il capo della religione approvata dallo stato… (nella religione approvata dallo stato il governatore è il rappresentante prescelto di Dio sulla terra, pagina 830)… il mio rapporto con il Padre non è quello di un cittadino qualsiasi con un prete… Temo che la politica lavori sullo spirituale come una decomposizione. Il buon governante desidera almeno che sia la migliore decomposizione possibile”.
Dopo che a intervalli regolari Kid gli chiede: ma “Il Padre è un uomo buono?”, all’ennesima reticenza di Calkins che non gli risponde il nostro eroe se ne va ridendo sempre più forte.

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– il rapporto tra arte e politica, quando Calkins, alla ricerca di “quel minuscolo luogo in cui politica e arte si trovano sullo stesso piano”, rimprovera a Kid di presumere che l’editoria sia l’unica attività politica che esiste. D’altra parte Calkins rimprovera a se stesso, come politico, di vedere invece semplicemente la cosa in termini un po’ di dichtung, poesia, e un po’ di warheit, verità, “con maggiore rilievo sulla seconda” (pagina 825).
A un’insinuazione di Calkins, Kid risponderà che plauso, reputazione e immagine, per l’artista sono solamente parte della vita, che “interessarsi a come funzionano, è una cosa. Desiderarle è un’altra… il genere di cosa che renderà impossibile comprendere veramente come funzionano” (pagina 826).

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– le risposte di Delany a questa mastodontica quasi sempre terza persona usata, dove la vita assomiglia sempre più a un libro le cui pressanti domande iniziali saranno così sconvolte dai personaggi, alla fine, da renderle insignificanti (pagine 840-1).

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– la seduta psicoanalitica di Kid ad opera di madame Brown dove l’entrata del capitolo iniziale (l’avevo detto che sarei dovuta andarmelo a riprendere) pare un sogno, ma potrebbe non esserlo, e se fosse un sogno sembrerebbe profetico. Ma non è un sogno perché, dopo l’orgasmo, Kid ha continuato a sognare.
Però madame Brown dice: “Ma il tuo è il primo sogno in cui mi sia imbattuta, nel corso dello studio o dopo di esso, dove sia stato raggiunto l’orgasmo e il sogno sia continuato (pagina 858).
E forse non è stato un sogno. Infatti, quelle catene prismatiche che per l’intero soggiorno Kid si porterà in giro per Bellona, non erano state sognate. Non lo sembrerebbero. Si trovava ancora nel sogno quando erano apparse.
Tutto si riallaccia a quel Femminile di Jung, di cui parlavo prima, che accoglie ma che, nella trasformazione, viene sentito da Kid come un’apocalisse. E Apocalisse sarà. Per chi?
Non per Bellona, che sputa e torna a ingurgitare.
Sputa chi torna a ricordare se stesso (Mike-Michael Henry Fl… Fr…, pagina 866).
Ingurgita chi ha bisogno di ritrovare se stesso.
Il giornale, il Times (William Dhalgren?, pagina 870) celo sta raccontando… (celando?).

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ENCOMIO AL TRADUTTORE, e alcune brevi considerazioni personali
Il traduttore, Maurizio Nati, ci informa che le tre “armi” con cui ha affrontato il romanzo, in una sfida durata quindici mesi, sono state: timore, entusiasmo, umiltà.
Elenca tutti gli aiuti fornitigli, anche quello dello stesso Delany, ed elogia la prima traduzione dell’eroica Roberta Rambelli che, a differenza di lui, non aveva avuto a disposizione tutto il materiale informativo che la Rete oggi mette a disposizione. Non omette di dire che, per tutto il tempo della sua traduzione, non ha mai smesso di fare riferimento e di orientarsi su quella della signora Rambelli.
Da parte mia, pur non avendo fatto un confronto diretto con il testo originale, da moltissimi particolari non posso fare a meno di stupirmi della bravura del traduttore e della sua superiore e intelligente comprensione.

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Quello che ho chiamato Esegesi Probativa di Dhalgren è naturalmente un’ironia perché, per poter tentare di spiegare qualcosa di questo romanzo occorrerebbero più libri, e sicuramente una schiera di persone delle più diverse attività e interessi, nonché un occhio particolarmente attento a quelle centinaia di particolari preziosi che l’Autore ha disseminato ovunque. Avrei potuto dire molto di più e sicuramente ho omesso tematiche e varianti di fondamentale importanza, ma non voleva essere una sentenza definitiva, anche perché Dhalgren non è un romanzo definitivo.
Dhalgren può piacere o non piacere, ma resta indimenticato.
Può essere interpretato in un modo o in un altro, ma resta fedele a se stesso.
Non so quanto tempo sia occorso a Delany per scriverlo ma, in ogni caso, lo ritengo uno scrittore geniale. Per tanti motivi. Non ultimo, anche per le sue soluzioni glottottetologiche (non si dice, ma il termine non è stato ancora coniato) che, pur essendo talvolta scrittura sperimentale, non hanno mai quel sapore di noiosa formalità estetica e di vuotezza a cui ci ha abituato scrittura minore, ma invece offre soluzioni di comprensione delle quali avevo accennato nel commento all’ultimo capitolo.
Molto del genio di uno scrittore sta nell’offrire soluzioni all’interno della propria costruzione letteraria. E molto più genio – a mio parere – sta nel saper offrire intelligenti domande aperte con soluzioni a discrezione del lettore: mi pare che Delany appartenga a questa seconda specie.
A volte, Bellona mi è parsa quasi una sorta di macchinosa isola di Sealand, il principato indipendente e artificiale a sud dell’isola britannica, ma molto più potente, più fuori da ogni dinamica sociale, una specie di astronomico buco nero da cui è (quasi) impossibile uscirne.
Anche se mi sembra di ricordare sia stato definito più un’elegante costruzione di fantasia da moltissimi punti di vista, personalmente ritengo Dhalgren un romanzo altamente fantascientifico, con una sua cosmologia articolatissima e definita. E l’ipotesi che Bellona sia un day after post-atomico potrebbe anche essere possibile, se solo rientrasse in un day after anche la dissoluzione del continuum temporale (e spaziale) che nel romanzo è costante.

Tea C.Blanc

 

BIBLIOGRAFIA PRESUNTA
Alcune delle letture dell’autore che potrebbero avere influenzato la stesura del romanzo, letture non necessariamente fatte in vista della stesura, potrebbero essere:
1. Inferno di Dante Alighieri
2. Civitas solis (La Città del Sole) di Tommaso Campanella, proiettata allo specchio (“prisma, specchio, lente”)
3. Alice’s Adventures in Wonderland (Alice nel paese delle meraviglie) di Lewis Carroll, come rafforzativo alla Città del Sole, nella valenza di “specchio”
4. teoria della relatività generale e meccanica quantistica di Albert Einstein, quel tanto per capire che, nell’esperimento, l’osservatore modifica l’osservato
5. Looking backward di Edward Bellamy (io l’ho letto in una vecchia edizione della Treves, 1928, dal titolo “Nell’anno 2000” (consigliatissimo, non l’edizione, il libro)
6. Erewhon ovvero Dall’altra parte delle montagne di Samuel Butler (il titolo è l’anagramma della parola inglese “nowhere”, in nessun luogo)
7. Odysseia, Odissea di Omero.
8. Istorìai, Le Storie di Erodoto di Alicarnasso
9. Georges Ivanovič Gurdjieff, il pensiero (arguito dalla citazione sulla Mansfield, oltre che dal presupposto di Gurdjeff che l’uomo vive in uno stato di veglia prossimo al sonno, o al sogno)
10. Jorge Luis Borges
11. Aldous Huxley
12. C. G. Jung (il mito dell’eroe)
13. Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke.
14. Iliade
15. Allen Ginsberg
BIBLIOGRAFIA ESPLICITA
Di seguito, invece, gli autori o le discipline esplicitamente citati da Delany nel corso del romanzo:
Miguel Angel Asturias (pag. 131)
Giorgios Seferis (131)
Saint John Perse (131)
Katherine Mansfield (144)
Stéphane Étienne Mallarmé, (144). Sarebbe interessante ricercare l’uso dell’omofonia nel testo originale di Dhalgren
Robert Graves (399)
Edmund Spenser (400)
Geoffrey Chaucer (400)
William Shakespeare (400)
Francois Villon (401)
Wilfred Owen (403)
Wystan Hugh Auden (403)
John O’Hara (403)
Samuel Taylor Coleridge (403)
Theodore Roethke (403)
Edward Taylor (403)
Jack Spicer (403)
John Ashbery (403)
John Donne (403)
George Gordon Byron (403)
Ted Berrigan (403)
Michael Dennis Browne (403)
Emily Dickinson (404)
Arthur Rimbaud (Le bateau ivre, Il battello ebbro, 404)
Paul Valery (Le cimitière marin, Il cimitero marino, 405)
Arthur Golding (traduzione della Metamorfosi di Ovidio, 407).
Maurits Corleis Escher (482)
François Boucher (483)
Leonardo da Vinci (483)
Donatien Alphonse François de Sade (576)
Ludwig Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus, 597)
Claude Lévi-Strauss (Geste d’Asdiwal, Le gesta di Asdiwal, 597)
Noam Chomsky (Syntactic Structures, Le strutture della sintassi, 597).
Immanuel Kant (Critica della ragion pura, 698)
fenomenologia della mente (698)
Martin Heidegger (Essere e tempo, 698)
James Thompson (The city of dreadful night, La città della notte spaventosa, 841).

3 Risposte a “Esegesi probativa di DHALGREN (Dhalgren, 1975), un romanzo di Samuel Ray Delany”

  1. madonna, un’analisi complessa quasi quanto il libro (che ormai è pure diventato introvabile, quindi ancor più ‘ermetico’)!

I commenti sono chiusi.