Recensione: LA ZONA DEL DISASTRO (The Disaster Area, 1967) di James Graham Ballard

Articolo di Tea C.BlancTHDSSTRRHD1979“Uno dei più grandi libri di fantascienza che io abbia mai letto.” Così è stata definita da Graham Greene questa Zona del disastro in cui Ballard ha riunito, in un crescendo di terrore, nove dei suoi più memorabili racconti. Ma attenzione: i mezzi che impiega Ballard per prenderci alla gola con i suoi terrori, non hanno niente a che vedere con le piacevoli emozioni o le salutari minacce degli altri “classici del brivido” scritti o filmati. Qui veramente “le persone impressionabili faranno bene ad astenersi”, perchè ne va del loro equilibrio mentale. E quanto agli altri, non sperino che le lucide e allucinanti profezie del caposcuola inglese comportino un “messaggio” che serva a scongiurare la catastrofe. “Nella zona del disastro ciascuno di noi c’è già ed è troppo tardi per uscirne”: è questo il solo, gelido, impassibile messaggio di Ballard.

Titolo: La zona del disastro | Autore: James Graham Ballard | Titolo originale: The Disaster Area, 1967 | Antologia di racconti | Per tutte le edizioni dell’antologia clicca QUI

  • GLI UCCELLI GIGANTI
    Storm-bird, Storm-dreamer
  • CITTA’ DI CONCENTRAMENTO
    The Concentration Man
  • L’UOMO SUBLIMALE
    The Subliminal Man
  • IL MARE E’ VICINO
    Now Wakes the Sea
  • PAZIENTE PERDUTO
    Minus One
  • IL SIG. F. E’ IL SIG. F.
    Mr. F. is Mr. F.
  • ZONA DI TERRORE
    Zone of Terror
  • CUBICOLO 69
    Manhole 69
  • L’UOMO IMPOSSIBILE
    The Impossible Man

Le antologie di racconti hanno un fascino innegabile perché attraverso brevi squarci offrono visioni veloci, ma non per questo meno potenti di un romanzo, in cui entrano mondi plurimi a creare un insieme solo in apparenza slegato. Possono essere tematiche, e spesso convergono più autori su uno stesso tema, oppure personali come quella di cui leggeremo oggi.
Che siano collettive o personali, però, l’organizzazione narrativa funziona di solito nello stesso modo: presentano uno o più elementi visti da più punti di vista, come quando si guarda un quadro cubista.

Lo scrittore britannico James Graham Ballard (1930 – 2009) è stato un maestro nell’arte del racconto.

8640J. G. Ballard: The Disaster Area (Jonathan Cape, 1967). Sovraccoperta della prima edizione originale in inglese

Molte delle sue tematiche riguardano l’essere umano e il suo rapporto interiore con i mass media, o, per usare parole sue, il “labirinto di fantasie, di propaganda massificata a sfondo politico”; o le contraddizioni e gli accecamenti umani fondamentali di cui ne ha messo a nudo con spietatezza i disastri che comportano. Oppure indagano nel profondo dell’essere umano, identificandone la psicopatologia, scarnificandone la sovrastruttura e mettendolo a nudo.
Non è scrittore adatto per chi non abbia addominali ben tesi, perché i suoi affondi lasciano il segno. Non è autore da prestarsi a giochini di dialettica. Non scrive per fare entertainment, intrattenimento.

Ci mostra che è inutile leggere la denuncia fantascientifica, se poi nella vita non si riesce a riconoscerla nelle dinamiche che sono state denunciate. O peggio, far finta di non vederle perché tanto è fiction. Meglio allora leggere un romanzetto da quattro soldi o non leggere affatto. Fa meno danno al prossimo.

2 - disastroJ. G. Ballard: La zona del disastro (Mondadori, 1979). Prima edizione italiana. Copertina di Karel Thole

Non a caso, una sua antologia di racconti si intitola La zona del disastro, The Disaster Area nella versione originale in lingua inglese.
Pubblicata nel 1967, in Italia uscì solo una volta a cura dell’editore Mondadori, e per la precisione nel 1979 all’interno della collana Urania (Le Antologie, 779), con traduzioni di Vittorio Curtoni, Mario Galli, Stefano Torossi e Hilja Brinis.
Nel momento in cui scrivo, da una breve ricerca in Rete risultano disponibili alcune copie.
In realtà, è possibile procurarsi l’opera omnia della narrativa breve di Ballard in un’edizione pubblicata dall’editore Fanucci in tre volumi: Tutti i racconti, Vol. 1, 1956-1962 (2003), introduzione di J. G. Ballard, postfazione di Antonio Caronia, traduzione di Roldano Romanelli; Tutti i racconti, Vol. 2, 1963-1968 (2004), postfazione di Antonio Caronia, traduzione di Luca Briasco; Tutti i racconti, Vol. 3, 1969-1992 (2005), postfazione di Antonio Caronia, traduzione di Luca Briasco.
E successive ristampe.

3 - 56 - 62J. G. Ballard: Tutti i racconti, Vol. 1 (1956 – 1962)

La zona del disastro raccoglie nove racconti, nove gemme radunate dall’Autore in prima persona appartenenti a una produzione che va dal 1957 al 1967.
Il primo racconto si intitola Gli uccelli giganti (Storm-bird, Storm-dreamer, 1966).
La scena si apre su una strage di uccelli, ma non sono normali uccelli. Sono uccelli “più grandi di un uomo, con un’apertura alare di sette metri o più”. C’è stato un incidente biologico, provocato dall’uomo, che ora rappresenta un pericolo mortale. Sembrano angeli lucenti quando arrivano in stormo.

Il protagonista, il cacciatore, dalla sua imbarcazione osserva una donna camminare sulla spiaggia, mentre si aggira tra i corpi senza vita degli uccelli. Non capisce che cosa stia facendo.
Non capisce, perché le donne di Ballard sono enigmatiche e sinistre. Sinistre nel senso che non hanno più un cuore, gli è stato già strappato. Incedono con la loro Bilancia della Giustizia e applicano giustizia, senza concedere attenuanti, tanto di più alla stupidità. Perché quando il peccato ha raggiunto tali dimensioni da non poter più essere nascosto o medicato, diventano salvifiche nella misura in cui azzerano la necrosi. Diventano chirurgiche.

Il racconto si può leggere in tutte le chiavi che si vuole, ma il messaggio resta lo stesso. Anche in questo sta la grandezza del racconto. Non è mistificabile.
Mio titolo alternativo: Quel giorno in cui si cominciò a uccidere gli angeli.

Il secondo racconto si intitola Città di concentramento (The Concentration City, 1967).
Un ragazzo, studente di ingegneria, ha un grande obiettivo: trovare dello spazio libero. Dopo aver fatto uno strano sogno, ha costruito un modellino che riesce a librarsi, a volare negli esigui spazi del suo mondo. Ma lui vuole di più, vuole volare lui stesso.
Il punto è che nella Città non esiste uno spazio abbastanza grande per poter volare. Costruita da tempo immemorabile su centinaia di livelli che si intersecano, sembra si presenti come priva di una fine, in tutte le direzioni.
Aiutato dall’amico incredulo, riuscirà a partire per un lungo viaggio sulla linea principale che viaggia verso est e verso ovest. La sua strategia è semplice: viaggerà sempre in direzione ovest e, prima o poi, dovrà trovare l’agognato spazio aperto.
Farsi domande, ma soprattutto farsi domande ovvie ed elementari, in un mondo in cui tutti hanno dimenticato e si nascondono a se stessi, anche se ci sarebbero ancora degli indizi per scoprire la verità, può essere straniante e motivo di stupore (anche di pericolo) per una mente non soggiogata.

Mio titolo alternativo: L’apocalisse del consenso comune.

Il terzo racconto si intitola L’uomo sublimale (The Subliminal Man, 1963).

Da un pezzo un medico viene importunato da un ragazzo, Hathaway, un pazzoide visionario, a detta di tutti. Uno che insiste a metterlo in guardia dai grandi cartelli che trasmettono messaggi subliminali. “La pubblicità subliminale è stata proibita trent’anni fa” gli risponde il medico.

Ogni volta che lo incontra, però, qualcosa gli incrina la serenità del suo comodo status. Serenità si fa per dire. Di questo passo, l’anno prossimo dovrà lavorare sette giorni su sette per far fronte al continuo, sconsiderato, acquisto di merci da buttare quando sono ancora nuove.

Ma il giorno dopo, ricordandosi delle parole del giovane, fa un suo piccolo esperimento passando dal supermercato.
Non è detto che un lampo di consapevolezza possa cambiare il mondo. La consapevolezza è una pratica che non si può coltivare un giorno sì e un giorno no, va praticata con costanza perché diventi arte e praticata con onestà. La rinuncia è invece una sconfitta quotidiana.

Altro racconto modernissimo perché privo di connotazione temporale, cioè valido sempre. Oggi, per esempio, si inserirebbe bene anche in certe derive dell’economia attuale, non preciso quali per non svelare la trama della storia. Ma anche in quella della comunicazione, pubblicitaria e non.
Mio titolo alternativo: Quando i supereroi si stancarono di essere il passatempo divertente di uomini comuni.

Il quarto racconto è Il mare è vicino (Now Wakes the Sea, 1966).
Mason fa un sogno che ha più le parvenze di un incubo, man mano che si ripete. Perché è un sogno vero, ma nessuno gli crede, nemmeno la moglie che, invece, è spaventata dal fatto che lui non ne sia spaventato. Ogni notte vede il mare lambire e sommergere le case. Che sia reale ne ha le prove, lo ha toccato. Eppure il mare più vicino dista millecinquecento chilometri.

Una metafora potente su chi siamo, da chi veniamo, verso chi andiamo. Possiamo anche far finta di dimenticare ma, prima o poi, qualcuno ricorda.

Mio titolo alternativo: Quando la schizofrenia è solo una diversa faccia della realtà.

Il quinto racconto si chiama Paziente perduto (Minus One, 1963).

In una clinica privata un paziente pericoloso è riuscito a fuggire. Il direttore non vuole informare le autorità di competenza per non addossarsi colpe e cattiva pubblicità, e cerca di rimediare con metodi tutt’altro che onesti, ma di tacito e comune utilizzo, come spesso i giornali ci rendono edotti. Da candidato incolpato, diventa incolpatore e anche assolutore, svolgendo un oculato lavaggio di cervello ai suoi sottoposti.
Così oculato che il giorno in cui si scopre la verità…
Cultura utilizzata per fini personali e di parte e dialettica volta a operare persuasione non significano né verità né onestà. Né giustizia. Anzi, possono essere molto pericolose.

Non sono omesse stilettate all’homo burocraticus, una degenerazione a vicolo chiuso del sapiens sapiens (in realtà non esiste la parola burocraticus in latino, che si denomina invece officialis o grapheocraticus, ma rende bene il concetto).
Mio titolo alternativo: Che cosa rende reale un uomo?

4 - 63 - 68J. G. Ballard: Tutti i racconti, Vol. 2 (1963 – 1968)

Il sesto racconto è Il sig. F è il sig. F (Mr. F. Is Mr. F., 1963).
Un uomo sembra ammalato, continua a perdere peso. La moglie, incinta, lo accudisce. La strana malattia pare abbia avuto inizio subito dopo la notizia della gravidanza, qualche settimana prima: lei si gonfia, e lui si sgonfia.

Eppure la moglie dice che tutto va bene, pare non accorgersi del dimagrimento vistoso del marito che, invece, vorrebbe almeno farsi vedere dal medico. Sulla figura sinistra del femminile vale lo stesso discorso fatto all’inizio.
Sebbene a uno sguardo superficiale il racconto sembri raccontare punti di vista sui rapporti tra uomini e donne, gli eventi traducono tutto in uno stato (negativo o positivo dipendono dalla misura in cui si è intuito il filo invisibile che lega le cose) che va ben al di là di un dissidio di generi, mero pretesto letterario. L’ignoranza e il dissidio sono prima di tutto interiori.
Mio titolo alternativo: Il giusto valore dei numeri.

Il settimo racconto ha un titolo clou: Zona di terrore (Zone of Terror, 1960).
Un ricercatore a capo della programmazione di un enorme simulatore cerebrale richiesto da un istituto psichiatrico, viene mandato dallo psicologo della Compagnia nel deserto, in una struttura prevista per il riposo dei dipendenti, perché il ricercatore, Larsen, presenta uno stato di esaurimento da troppo lavoro.
Qui Larsen ha un’allucinazione, che lo psicologo non prende sottogamba. Sa che cosa sta succedendo e cerca di dargli l’imbeccata giusta dicendogli: “… riflettete quanto più chiara diventi la figura di Amleto se vi rendete conto che lo spettro del padre assassinato è lo stesso Amleto”. Ma lo psicologo non si aspetta il resto.
Un formidabile giallo psicologico le cui fasi incedono con eleganza progressivamente concitata fino alla soluzione finale. Alfred Hichcock ne avrebbe fatto un capolavoro cinematografico.

Mio titolo alternativo: Dall’altra parte dello specchio.

L’ottavo racconto è Cubicolo 69 (Manhole 69, 1957).
L’operazione è riuscita. Finalmente l’umanità è uscita da quell’arcaica zona buia che si chiama sonno.
Sono tre gli uomini ad aver partecipato all’esperimento e mostrano più intelligenza, più memoria, più riflessi. Ora non avranno mai più bisogno di dormire. Ancora in convalescenza, sono in osservazione e costantemente seguiti dall’equipe di medici.
Forse il più tragicomico e panicante dei racconti di questa antologia. L’umana prerogativa superba di presumere che rompere equilibri primordiali sia una grande invenzione, invece di imparare a usare proficuamente quello che già esiste, a volte può dare risultati sorprendenti. Che sia bene o male, basti guardarne l’esito.
Mio titolo alternativo: Il manicomio è dentro, non fuori.

Il nono e ultimo racconto è L’uomo impossibile (The Impossible Man, 1966).
Conrad è nato in un mondo di vecchi. I ragazzi sono rari quasi quanto lo erano stati i centenari fino a un secolo prima. Ha un incidente in cui perde una gamba. La soluzione per tornare come prima c’è.
Sta a lui decidere, e lui deciderà. E deciderà fino alla fine.
Manipolazione medica e innesti. C’è chi inneggia a uomini-cyborg. E chi si fa congelare.
Un’immortalità ancora una volta di genere meccanico, non senziente, che rimuove la morte. Non desidera comprenderla.
Mio titolo alternativo: Il fallimento della persuasione.

phpThumb_generated_thumbnailjpgJ. G. Ballard: Tutti i racconti, Vol. 3 (1969 – 1992)

È evidente da quanto ho scritto che i miei sono solo spunti. E molti altri ne nascerebbero se si approfondisse ogni racconto a dovere. Ma occorrerebbe raccontare le storie che, invece, a ognuno devono richiamare quello di cui ha bisogno.
Di mio aggiungo ancora che in questa civiltà terrestre c’è la diffusa tendenza ad attribuire all’esterno, a chi le sta di fronte, ciò di cui invece si soffre in prima persona. È una sorta di accecamento interiore che non permette di vedere con oggettività gli eventi che riguardano se stessi e riguardano, per traslazione, gli altri, poiché l’accecamento preclude la squisita condizione di saper vedere anche con gli occhi dell’altro (anche i buoni hanno una zona oscura). Doppia menomazione, quindi: per se stessi e verso il prossimo.

C’è anche da considerare un’altra diffusa tendenza, che in apparenza non lega con tutto quanto sopra. Quella di vedere la letteratura come una sorta di gioco autocompiacente, per poi usarla come un manifesto di cui ci si riempie la bocca, ma poi tradirla alla prima occasione nella vita quotidiana. Per esempio parlare di libertà e di chi l’ha mutilata, ma poi comportarsi con le stesse modalità con cui si presume si siano comportati gli stessi che si stanno condannando.
Facendola diventare quello che si suol dire “lettera morta”: una sorta di esercizio volto a porre in risalto la propria dialettica, dove spesso la cultura diventa solo la triste serva di una parte e per fini di parte, allo scopo di sconfiggere una ipotetica seconda parte. Forse una personale rivalsa a un ingiustificato senso di inferiorità.

L‘idea è, nella sua manifestazione, azione. Se si tradisce l’azione, si tradisce l’idea. Si suole chiamarla contraddizione.
Questo non è letteratura, e nemmeno cultura. La letteratura non è cosa da combriccole e consorterie. O meglio, l’onestà intellettuale deve sapersi porre al di sopra delle meschine lotte umane. Deve saper parlare a tutti, e farlo con sincerità.

Il messaggio di Ballard è limpido come acqua di sorgente.
Tutto sarebbe solo un altro discorso di letteratura e basta, se non fosse che queste incomprensioni e queste contraddizioni, la voluttà con cui ci si compiace del dissidio interiore, la dichiarata diserzione a voler perlomeno iniziare a intuire un risolvimento che tenga conto degli opposti, portino a disastri, spesso planetari e da cui non esiste ritorno. Appunto, a zone di disastro.

Tea C.Blanc