Film: AVALON (Gate to Avalon, 2001) diretto da Mamoru Oshii

Recensione di Mario Luca Moretti71TIsG4rEiL._SY445_In un prossimo futuro, Ash (Malgorzata Foremniak) è una giocatrice professionista di Avalon, un videogioco bellico dai livelli crescenti di difficoltà. Il gioco può essere svolto individualmente o a gruppi e le vittorie sono remunerative, ma pericolose, perché il raggiungimento del livello A, il più alto, può comportare gravi danni celebrali, e per questo il gioco è illegale. Ash è una giocatrice solitaria, ma in passato ha giocato nel gruppo Wizard, sciolto perché, a causa di un errore tattico di Ash, un altro membro, Murphy, è caduto in un perenne stato catatonico. Nell’ambiente dei giocatori gira la voce che esiste un livello SpecialA, ancor più difficile, lucroso e pericoloso. Quando durante una battaglia appare un’eterea bambina si può entrare nello SpecialA seguendola. Ash comincia a vedere la bambina: sconsigliata da tutti decide di seguirla, e le sua già precaria cognizione della realtà subirà uno sconvolgimento totale.

Titolo: Avalon | Titolo originale: Gate to Avalon | Anno: 2001 |diretto da Mamoru Oshii | Produzione: Bandai Visual, Media Factory, Miramax | Lingua originale: polacco | Paese di produzione: Giappone, Polonia

Avalon (2001) è un insolito esempio di coproduzione nippo-polacca, girato in Polonia con attori polacchi, una troupe giapponese e uno staff creativo misto. Il regista è Manoru Oshii, autore famoso anche in Occidente per i suoi film d’animazione, come Ghost in the shell (1995), qui al suo secondo lungometraggio dal vivo. Oshii spiega così la scelta delle location:

“Girare in Giappone era impossibile. (…) Considerai se girare in Inghilterra o in Irlanda, ma le città e i paesaggi polacchi coincidevano con le mie idee per il film.”

E in effetti la città polacca di Breslavia, dove è ambientata la vita quotidiana di Ash, ben comunica il suo senso di alienazione e solitudine, con la sua grigia architettura di stampo sovietico. Le scene delle battaglie virtuali furono girate nei dintorni di Nowa Huta e alla Fortezza Modlin, usando mezzi dell’esercito polacco messi a disposizione gratuitamente. La parte finale invece fu filmata a Varsavia, menzionata espressamente.

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Se la trama e le tematiche del film sono facilmente accostabili a eXistenZ di David Cronenberg o alla serie hollywoodiana di Matrix, il suo stile ricorda piuttosto Orwell 1984 di Michael Radford, per come integra i personaggi con ambienti desolanti, mentre i suoi dialoghi scarni, il ritmo lento, il vagare ossessivo dei personaggi, persino le posizioni assunte dagli attori an alcune scene di dialogo rievocano i film di Michelangelo Antonioni.

A indicare quanto sia la vaga la differenza fra le due dimensioni sia le scene di “vita quotidiana” che le battaglie virtuali sono girate in colori virati digitalmente in seppia, al punto da sfiorare il bianco e nero. Il finale invece è girato in colori vivaci, per simulare un realismo che l’enigmatico epilogo smentisce.

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Fin dal titolo abbondano espliciti riferimenti alla saga della Tavola Rotonda, ma anche a quella nordica di Odino, creando un parallelismo fra le loro mitiche “isole dell’oblio” e la nebulosità dei personaggi. Ma Oshii ci aggiunge riferimenti alla sua vita personale. L’abitudine di Ash di vagare avanti e indietro sulla stessa linea riprende un’abituale attività del regista quand’era un adolescente sfaccendato; la squadra dei Wizard accenna a Wizardry, un videogioco che Oshii praticò molto nel periodo d’inattività fra il 1985, quando lasciò lo studio Deen, e il 1987, quando entrò nel gruppo Headgear per avviare la serie Patlabor. E anche la sua cinefilia fa capolino: Ash è lo stesso nome dell’androide di Alien (1979) di Ridley Scott, il nascondiglio in cui la protagonista avvia le sedute di Avalon ricalca la macchina del tempo di La jetée (1962) di Chris Marker; tra le armi di Ash c’è la pistola Walther di James Bond. Si vedono anche alcuni “feticci” ricorrenti nei film di Oshii, come la presenza di un cane bassotto e della pistola Mauser C96.

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Sul lato della recitazione il film è quasi tutto sulla presenza della polacca Malgorzata Fromniak, che ci dà un’interpretazione volutamente dimessa e impersonale, per suggerire lo sforzo di Ash di sopprimere qualunque sentimento. Eppure la scena più poetica del film è quella – all’apparenza inutile, in realtà ricca di sottintesi – in cui Ash prepara da mangiare per il suo bassotto. Senza sonoro, a parte la sognante musica di Kenji Kawai, la vediamo intenta in operazioni banali mentre man mano il suo volto s’illumina di un’apparente, inspiegabile felicità, fino al momento in cui s’accorge che il cane è scomparso. Foremniak riesce a giocare con una mimica facciale ricca ed espressiva, in contrasto tanto più sorprendente con la rigidità del resto del film, riuscendo a trasmettere allo spettatore un’emozione gioiosa eppure spiazzante.

Mario Luca Moretti