Seguire la fantascienza da decenni e trovare che nella libreria di un aeroporto europeo un intero scaffale di tascabili, sui tre disponibili, è occupato da un autore che non si è mai sentito nominare, è un’esperienza un po’ straniante: non potevo fare a meno di approfondire.. sulle prime ho pensato addirittura che questo autore non fosse stato tradotto in Italia; in realtà proprio i due romanzi di cui parleremo sono stati pubblicati da noi poco dopo che in Francia, “Formiche” anche con un certo successo visto che per Longanesi ha avuto tre edizioni (è stato tradotto anche in inglese come “The empire of the ants”, e sarebbe addirittura amatissimo in Russia e Corea del Sud); non sono mai stati pubblicati i seguiti, però. In effetti la fantascienza francese da noi non è mai andata fortissimo: ricordo solo Jimmy Guieu, nei primi anni di Urania (Louis Charbonneau invece era americano!).
Chi è questo Bernard Werber? Un giornalista scientifico, ossessionato fin da bambino dagli insetti: a trent’anni pubblica “Les fourmis” (“Formiche”) che ottiene rapido successo diventando anche un film d’animazione, ed è seguito da altri due volumi che compongono la “Trilogia delle formiche”; in seguito Werber scriverà decine di romanzi, spesso raggruppati in trilogie.
Veniamo a Formiche. Jonathan, fabbro disoccupato protagonista del romanzo, riceve la comunicazione di aver ereditato i beni di un eccentrico e geniale zio, Edmond Wells; in particolare una casa vicino al bosco di Fontainebleau dove lo zio si ritirò a vivere dopo essersi licenziato da una multinazionale chimica per incompatibilità di carattere. Con scrupolo Jonathan cerca di sapere qualcosa di più sul parente di cui ha solo remoti ricordi; la matriarca nonna Augusta (che entra di diritto nel novero delle nonne più spiritose e brillanti dei loro discendenti, come quella del “Tempo delle mele”), gli consegna una busta con l’indicazione “Soprattutto non entrate in cantina!”. Come nella fiaba di Barbablù, un avviso simile non può che spingere a esplorare la cantina in questione, soprattutto dopo che Jonathan si è trasferito nella nuova casa con moglie e figlio. Presto le misteriose escursioni nella cantina diventeranno un’ossessione per lui, soprattutto dopo che il cagnolino del figlio ne sarà uscito agonizzante e fatto praticamente a brandelli; ma Jonathan non rivela nulla alla moglie su quel che trova nelle sue escursioni, compiute con abbondanza di attrezzi e materiali edili. A un certo punto non torna più; la moglie si avventura a cercarlo, ma scompare anche lei; le autorità metteranno il figlio in una casa famiglia, intanto che indagano; ma una squadra di soccorso dopo l’altra viene inghiottita dalle profondità della cantina, tranne un malconcio superstite che però è impazzito e non può raccontare cosa ha visto… finché Solange Doumeng, l’antipaticissima responsabile delle indagini, decide di risolvere cementando il varco di entrata.
Questi fatti sono narrati in continua alternanza con un altro intrigo che avviene nel mondo delle formiche: un formicaio, che è riuscito a rendersi egemone sui formicai circostanti per centinaia di metri, si vede minacciato da “armi segrete” che annientano interi gruppi di esploratrici: saranno state le feroci formiche nane, che l’uomo ha importato dall’Africa? O le termiti, “nemico ereditario” da centinaia di milioni di anni, meno evolute ma tuttora agguerrite? Per le poche sopravvissute all’ “arma segreta”, però, c’è un nemico più immediato: misteriose guerriere “dall’odore di roccia” che cercano di ucciderle nel loro stesso formicaio, dopo aver chissà come eluso la sorveglianza all’entrata, basata proprio sugli odori. Meglio avventurarsi nel mondo esterno al formicaio per cercare la risposta a questi enigmi…
la competenza entomologica di Werber è tale da rendere questa narrazione ipnotica e straniante per il lettore; senza spiegoni, ma nel corso della narrazione, prenderà vita ogni aspetto della società “mirmecea”: dalle comunicazioni attraverso ferormoni emessi da ogni singolo elemento delle antenne alla storia e leggenda dei formicai e delle dinastie di regine. Werber è un “logoteta”, un inventore di linguaggi scientificamente plausibili, come l’indimenticato Richard Adams della “Collina dei conigli”: anche se le formiche comunicano con gli odori, le ha dotate di toponimi, storia antica, leggende; persino di un linguaggio erotico e di un’originale concezione del tempo. Dopodiché introduce “invenzioni” fantascientifiche, anche se estrapolate da fatti reali: come l’efficace difesa contro un picchio verde, la capacità di mettere in fuga un passero, la caccia alla lucertola, la “comunicazione assoluta”, i “carri armati”
Le due narrazioni, rapidamente alternate, sono punteggiate da citazioni dell’opera somma del fu Edmond Wells: “L’enciclopedia del sapere relativo e assoluto”, che grazie alle svariate citazioni si avvia a essere uno dei “libri immaginari” più affascinanti della letteratura di fantasia, dopo il Necronomicon, la Guida Galattica per Autostoppisti di Douglas Adams e il Manuale delle Giovani Marmotte (la fonte di sapere universale citata da Qui Quo Qua nelle storie di Topolino, più che quello davvero pubblicato da Mondadori; anche “Livre de poche” ha pubblicato davvero “L’enciclopedia…” come volume a sé stante: chissà se ha fatto bene..). Allo stesso modo le formiche citano sentenze famose delle loro Regine, di saggezza spietata.
Qual è il senso di queste trame? Werber vuole descrivere la società umana in confronto a quella delle formiche, da un lato (collaborazione fino al collettivismo), e a quella dei ratti dall’altro (egoismo e distruzione); ma più ancora che la società gli interessa l’evoluzione dell’individuo: il romanzo contiene molti riferimenti all’alchimia, e si sa che l’ “opus magnum”, la trasformazione del piombo in oro, altro non era che una metafora per la purificazione dell’individuo e la liberazione delle sue potenzialità. Le sue considerazioni sulla società, in particolare sulla ricerca di sicurezza da parte dei governi per evitare traumi alla popolazione, rinunciando però all’adattabilità e all’evoluzione degli individui, sono attualissime. Tutto ciò sullo sfondo di una visione del cosmo basata non sull’entropia, come purtroppo siamo abituati a considerare scontato, ma sull’aumento della complessità (fisicamente possibile, a determinate condizioni).
Insomma un bell’insieme di idee, ben calate in una trama che sa passare dal drammatico al brillante (divertenti anche i monelli nell’orfanotrofio, per non parlare del mondo degli umani visto dalle formiche) e nel sorprendente finale unisce in maniera sorprendente i due filoni principali descrivendo un vero e proprio “percorso iniziatico”.
In questo primo volume autoconclusivo (ma si intuisce che è solo la base per il resto della trilogia), Werber utilizza un approccio culturale olistico, che cerca di afferrare la realtà usando sia le scienze “dure”, come in questo caso l’entomologia, sia quelle “morbide” come la sociologia; tentativo riuscito in questo libro, anche se il rischio di cadere in una generica e vaga spiritualità c’è, e sarà forse più forte in opere successive.
Di nuovo, come a i tempi di J.H. Rosny (pioniere della fantascienza d’Oltralpe, delle cui opere di narrativa “preistorica” abbiamo parlato qualche mese fa), la Francia apre una sua via al fantastico (ma chi ama o vuole proporre ai figli il fantastico con base scientifica, e in particolare gli insetti, non dimentichi anche “Ciondolino” di Vamba, l’autore del “Giornalino di Gian Burrasca”)
Il discorso cambia parecchio per Il viaggiatore delle stelle, romanzo del 2006 che, a differenza di molti altri di Werber, non fa parte di un ciclo.
Il tema è riassunto nella suggestiva frase “l’unica speranza rimasta è la fuga”: riferito all’umanità, afflitta dai suoi consueti mali come guerra, corruzione e inquinamento, a cui in quegli anni si era aggiunto prepotentemente il terrorismo di massa.
A questo tema generale si aggiunge una questione personale: il protagonista Yves Kramer, ingegnere sognatore e imbranato, ha un sogno nel cassetto: realizzare un’astronave che userà come propulsione il vento solare perché almeno una parte dell’umanità possa salvarsi su un altro pianeta. È il progetto della sua vita: rifiutato dalla scienza ufficiale, ma per fortuna finanziato da un miliardario visionario, una specie di Tony Stark o Elon Musk del 2000. Purtroppo il buon Kramer, guidando nella più completa distrazione, ha investito e resa invalida Elisabeth Malory, campionessa mondiale di navigazione in solitaria nonchè donna affascinante e di liberissimi costumi. Lei giura di odiarlo per tutta la vita: lui la vuole come unica possibile navigatrice del veliero interstellare, che avrà le vele piene di fotoni.
Una trama un po’ alla Cordwainer Smith, insomma, ma raccontata alla maniera sentimentale di Claude Lelouch, cui in effetti il romanzo è dedicato; Lelouch ha anche aiutato Werber per il suo lungometraggio “Nous, les terriens” (poliedrico, questo personaggio!). Se il collegamento con il regista di “Un uomo, una donna” vi lascia perplessi.. avete ragione: e vedremo perché.
Il progetto, che di revisione in revisione diventa faraonico, deve superare molti ostacoli tra cui la complessità del reclutamento delle persone da imbarcare e soprattutto l’invidia e l’attivo boicottaggio dei governi terrestri, che per ragioni economiche, politiche o religiose (una.. “triade di malanni a cui Werber fa frequente riferimento), ma finalmente riesce ad abbandonare il pianeta Terra. A una buona prima parte, ne segue una altrettanto piacevole in cui si descrive l’organizzazione della vita su questa “astronave generazionale”, che dovrebbe raggiungere dopo 1’000 anni un pianeta abitabile: sono stati imbarcati ben 144’000 “coloni” (lo stesso numero dei salvati nell’Apocalisse di San Giovanni: a Werber piace anche la numerologia), su un missile alto mille metri, che una volta nello spazio ha esteso a cannocchiale i 32 segmenti che conteneva. Werber prova a immaginare un’utopia, seppure diretta con polso fermo dai 4 fondatori; un’utopia laica, “senza politici, preti e soldati: espressioni di dipendenze”.
Certo siamo lontani da classici delle astronavi generazionali come “Universo” di Heinlein o “Riti di passaggio” di Panshin; rispetto alle “Formiche”, la scrittura è un po’ tirata via, lo stile molto più asciutto e sintetico, formato da frasi brevi in capitoli dai titoli ancora ispirati all’alchimia come “cottura lenta”, “sale trasformato in zucchero”, “fase di macerazione, …di calcinazione, …di putrefazione, …di sublimazione”, “togliere dal fuoco”… (a volte ricordano più un ricettario di cucina); molta meno scienza, più sociologia.
Purtroppo nel prosieguo i mille anni di viaggio vengono descritti piuttosto sbrigativamente, per arrivare a un finale che vuole probabilmente al tempo stesso spiegare razionalmente alcuni sacri testi terrestri, proporre l’ipotesi della panspermia (la vita portata sulla Terra, come su altri pianeti, da spore cosmiche), e anche essere spiritoso, ma lascia un po’ perplessi.
Quel che davvero è difficile mandar giù in un’opera di fantascienza sono le imprecisioni scientifiche: se nelle “Formiche” si lamentava solo lo sciocco pregiudizio sui “pipistrelli che si attaccano ai capelli”, qui c’è solo da scegliere: la rotazione dell’astronave, che creerà una gravità artificiale, richiede un motore continuamente in funzione (come se, una volta avviata la rotazione, ci fosse qualcosa a frenarla, a parte trascurabili effetti di marea interna); oppure, due in uno: “Il telegiornale proseguiva, avvisando che i poli si scioglievano a conseguenza del buco nell’ozono. L’aumento di livello delle acque aveva causato una serie di tsunami che avevano sommerso numerose città costiere” (eppure c’era appena stato lo tsunami del 2004! per il vostro recensore, che in parallelo sta leggendo “New York 2140” di Kim Stanley Robinson, è stata una fitta al cuore).
Infine, ho un’allergia acuta per espressioni misticheggianti come “la Natura vuole compensare un vantaggio con uno svantaggio”, “la Natura ha previsto e provveduto”, “l’Universo ha una sua perfezione, quindi”, essendo convinto come Stephen Jay Gould che fede e scienza possano avere i rispettivi àmbiti purchè chiaramente separati.
Insomma, un libro scritto un po’ “con la mano sinistra” (mi scusino i mancini: lo sono anch’io).
In definitiva: questo Werber è un autore di sostanza, o un abile narratore che ha saputo cavalcare l’onda della New Age?
Per rispondervi, nel consigliarvi comunque “Formiche”, vi diamo appuntamento a una prossima recensione che tratterà il resto della Trilogia delle Formiche.
Antonio Ippolito