Introduzione di Sandro Pergameno al volume IL SERPENTE DELL’OBLIO di Vonda McIntyre COSMO – CLASSICI DELLA FANTASCIENZA – Volume n.41 (Febbraio 1980)
Vonda McIntyre: la «new wave» femminile nella narrativa fantastica
La fantascienza è stata, dalle sue origini fino a pochi anni fa, un dominio quasi esclusivamente riservato agli uomini, un genere che ha attirato e interessato in prevalenza lettori di sesso maschile.
Fino a qualche anno fa, gli scrittori più importanti erano tutti uomini: i «grandi» riconosciuti della sf erano Asimov, Clarke, Heinlein, Van Vogt, Sturgeon, Bradbury, Sheckley, e via dicendo.
Oggi le cose stanno gradualmente cambiando; non che gli Asimov o gli Heinlein vadano perdendo la loro popolarità, tutt’altro, ma accanto a loro troviamo nomi femminili come quelli di Ursula Kroeber Le Guin, Marion Zimmer Bradley, Kate Wilhelm. Oggi le donne partecipano sempre più alla fantascienza in tutte le sue manifestazioni: sono sempre di più le lettrici, le appassionate che vanno ai congressi e che si danno da fare nel campo delle riviste amatoriali, e soprattutto le scrittrici. A questo proposito c’è chi, come Harlan Ellison, è arrivato ad affermare che i migliori autori di fantascienza del momento siano proprio delle donne. Affermazione tutt’altro che sballata se si pensa alla razzia vera e propria di premi fatta negli ultimi anni dalle autrici (basti pensare agli svariati Hugo vinti dalla Le Guin e da Alice Sheldon sotto il suo pseudonimo di James Tiptree, o ancora ai Nebula vinti dalla Wilhelm, dalla Russ e dalla stessa Vonda McIntyre qui presentata).
È difficile stabilire se le donne si accostino con nuova passione e nuovo vigore alla fantascienza per il fatto che quest’ultima è mutata notevolmente nelle forme e nei contenuti durante l’ultimo ventennio, oppure se siano state le stesse scrittrici a cambiare la sf e a spingerla in una direzione che potesse interessare anche le donne e non soltanto il sesso maschile.
Probabilmente il riavvicinarsi della science fiction al mainstream (avvenuto a opera di movimenti come la «new wave» e di scrittori più attenti alla forma e allo stile come Zelazny, Delany, Silverberg, Brunner, e come le stesse scrittrici già citate sopra), l’annullarsi di una dicotomia esistita per mezzo secolo e oltre, l’abbandono da parte di molti autori di sf di un certo tipo di filosofia positivistico-ottimista, hanno contribuito molto al progressivo accostamento delle donne a questo tipo di letteratura. L’enfasi posta dalla science fiction degli anni trenta e quaranta sulla parola «science» piuttosto che sulla «fiction», cioè sull’aspetto narrativo, ha fatto si che fosse praticamente impossibile scrivere questo genere di storie per chi non fosse uno scienziato o non avesse perlomeno delle solide cognizioni nel campo scientifico e tecnologico.
È ovvio che le donne, non essendo mai state particolarmente interessate alle discipline scientifiche e soprattutto a quelle tecnologiche (anche oggi, nonostante i mutamenti dei tempi e l’emancipazione femminile in tutti i campi, ci sembra che il sesso debole, se ancora lo si può definire a questo modo, continui a evitare campi forse troppo freddi e astratti come quelli delle tecnologie più complesse e avanzate, per dedicarsi invece all’esplorazione e allo studio di discipline più interessanti e più affascinanti da un punto di vista umano ed emotivo, come la sociologia, la psicologia, la biologia), non provavano nessuna passione per i racconti pieni di incomprensibili formule matematiche e di ipotesi scientifiche che ben poco concedevano alla trama vera e propria e in particolare allo sviluppo del carattere dei protagonisti.
Oggi però, come affermavamo in precedenza, le cose sono parzialmente cambiate. Non siamo ancora, tuttavia, su un piano di assoluta parità fra i due sessi (ci riferiamo ovviamente alle quantità numeriche degli appassionati e degli autori). Secondo una statistica fornita da Virginia Kidd, agente letterario di chiara fama e abilità (rappresenta tra gli altri anche Ursula K. Le Guin), pare che la proporzione tra scrittori e scrittrici sia di trenta contro uno (o una). E siccome la situazione degli scrittori riflette alla perfezione anche la situazione tra i lettori e gli appassionati, possiamo ben vedere quanta strada ci sia ancora da percorrere in questo senso.
Tuttavia è sempre molto meglio di prima, di cinquanta, quaranta, o trent’anni fa, quando le scrittrici di sf erano davvero una rarità, mosche bianche che dovevano combattere duramente per conquistarsi una reputazione contro i pregiudizi dei lettori e soprattutto dei direttori delle riviste. Non sono stati pochi, infatti, i casi di autrici costrette dai direttori ad adoperare uno pseudonimo maschile per i loro racconti di fantascienza. Spesso (basti ricordare il caso di Catherine Lucilie Moore, moglie di Henry Kuttner e creatrice di personaggi celeberrimi come Northwest Smith e Jirel di Joyry) i loro nomi venivano ridotti ad anonime iniziali: C.L. Moore, o L.F. Stone (Leslie F. Stone), o L. Taylor Hansen (Louise Taylor Hansen). Un caso del genere è capitato qualche anno fa anche alla Le Guin, quando vendette il racconto Nine Lives alla rivista Playboy, che, come tutti sanno, è una rivista rivolta a un pubblico prevalentemente maschile. Un’esperienza che la Le Guin, donna di estrema sensibilità e intelligenza, non ha digerito con molto piacere. Così infatti la grande scrittrice di Portland racconta questo increscioso episodio della sua sfavillante carriera letteraria in un articolo in cui parlava, tra l’altro, appunto della scarsità delle donne nella fantascienza: «Sono stata costretta a nascondermi una volta sola, da un redattore di Playboy, che mi ridusse a una forma semplice, mite, poco pericolosa, e leggermente enigmatica: una “U”. Non Ursula, solo “U”. Da allora mi sono sempre sentita un po’ curva, un po’ a forma di U».
Tra le autrici dell’ultima leva (quella del 1970, per intenderci), Vonda N. McIntyre è certo una delle più valide e interessanti, assieme alla Cherryh e alla Foster, da noi già lanciate in Italia.
Nata nel Kentucky, è vissuta nel Massachusetts, a New York, nel Maryland, nei Paesi Bassi e a Washington. Si è laureata con lode all’università di Washington in biologia e si è specializzata in genetica. Ha lavorato come insegnante d’equitazione, come perforatrice di schede di calcolatori, e come coordinatrice dei seminari degli scrittori di fantascienza all’università di Washington.
Le sue storie, a partire dall’inizio degli anni settanta, sono apparse sulle principali riviste di fantascienza ( Analog e Magazine of Fantasy and Science Fiction) e su molte antologie originali (come Orbit, Quark, The Alien Condition, Clarion).
Nel 1973 ha vinto il premio Nebula per la miglior novelette con Of Mist, Grass and Sand, che forma la prima parte di questo Dreamsnake. Nel 1979 si è ripetuta facendo incetta di tutti ì maggiori premi fantascientifici (Nebula, Hugo, Locus) con Il serpente dell’oblio (Dreamsnake) appunto, che è il suo secondo romanzo.
Vonda McIntyre è un tipico esempio di quanto si affermava in precedenza a proposito delle donne nella fantascienza e delle scrittrici in particolare: come molte altre sue colleghe (Ursula Kroeber Le Guin, Kate Wilhelm, Joan Vinge, Marion Zimmer Bradley, tanto per fare qualche nome), la McIntyre preferisce evitare un genere di fantascienza decisamente «hard», come potrebbe essere quella scritta da un Larry Niven o da un Gregory Benford: preferisce evitare le scienze «dure», le tecnologie complesse alla Clarke basate sugli sviluppi più raffinati della scienza moderna spaziale e astrofìsica, per raccontare un tipo di storia fondata sull’introspezione psicologica dei personaggi, sui mutamenti interiori che le vicende subite apportano nei lori animi, sulle relazioni che si intrecciano tra di loro, sulle culture e società descritte.
Il serpente dell’oblio è appunto, in questo senso, un’ opera tradizionale, rientrante nel genere picaresco del racconto di un viaggio, di una «quest» in un mondo alieno. È la storia di Snake, una giovane donna che guarisce i malati con l’aiuto di tre serpenti in una Terra del lontano futuro devastata da un olocausto nucleare e tornata a una cultura primitiva (a parte alcune oasi in cui si conserva ancora una certa conoscenza scientifica). Nel racconto che forma la prima parte del libro (Of Mist, Grass and Sand). Snake perde il suo «dreamsnake», il suo «serpente dell’oblio» (una creatura il cui veleno è stato alterato biologicamente per dare sollievo e morte indolore), a causa della cecità mentale degli incolti abitanti del deserto. Questa prima sezione, che ha una sua morale diretta contro l’incapacità dell’uomo di adoperare e accettare e comprendere gli strumenti di cui ha bisogno per migliorare, è la premessa da cui parte l’autrice per narrare le successive gesta della protagonista.
Snake, delusa dall’incomprensione umana e priva del suo ausilio più prezioso, parte alla ricerca di un altro «serpente dell’oblio» e anche di una rinascita della sua vocazione ormai affievolitasi. Inizia così il viaggio attraverso un mondo post-tecnologico, una Terra desolata e spopolata, ridotta a un immenso deserto in cui sopravvivono alcune culture umane solitarie e chiuse in se stesse, incapaci o contrarie all’intraprendere rapporti le une con le altre.
Il background è dipinto soprattutto tramite accenni e dettagli suggestivi: la McIntyre non sì sofferma molto sulle descrizioni del deserto, di Center (la città sotterranea dove vive della gente che intrattiene relazioni con i popoli delle stelle e che è l’unico baluardo della tecnologia «hard» in questo mondo desolato), o della città dei guaritori (il popolo di Snake). Preferisce piuttosto lasciare un po’ nell’ombra alcuni particolari di questo mondo e approfondire invece la psicologia dei personaggi, le loro relazioni, e mantenere il «passo» della narrazione.
Con notevole bravura, con uno stile moderno ed efficace, la McIntyre utilizza al meglio le strutture tradizionali su cui poggia il romanzo, avvincendo il lettore nella storia narrata. L’autrice riesce a farci condividere il viaggio di Snake, donna complessa e dotata di un vivo senso di pietà, mentre è alle prese con le richieste della sua professione e l’alienazione che questa le causa, con i problemi pratici della sopravvivenza, con il suo bisogno d’amore e di conforto, con il suo desiderio di avere un figlio. Le scene che riguardano Melissa, una piccola schiava tormentata che Snake adotta mentre si trova a Mountainside, una verde vallata tra le montagne che la separano dal deserto esterno, sono le più potenti e vigorose dal punto di vista emotivo.
D’altronde tutto il libro, oltre a essere un’avvincente avventura su un mondo misterioso e pieno di segreti nascosti, è una galleria di personaggi che fanno da sfondo a Snake e Melissa: Arevin, il giovane della tribù del deserto che aiuta Snake a salvare il bambino malato e poi ne rimane affascinato; Jesse, la fanciulla fuggita da Center e dalla sua aberrante e ossessionante oppressione per un desiderio di libertà e di vita più normale; Gabriel, il figlio del sindaco di Mountainside, disprezzato dall’intera cittadinanza e ripudiato perfino dal padre. Sono tutte figure che rimangono impresse nella memoria, pur essendo soltanto personaggi di passaggio, fuggevoli, in un libro così ricco e pieno di gente e d’azione.
Tornando un attimo al discorso iniziato in precedenza sull’antipatia delle scrittrici verso la scienza, bisogna dire che la McIntyre ha tuttavia un vantaggio su molte sue colleghe: ha a disposizione una cultura universitaria basata sulle scienze biologiche e sulla genetica in particolare, e non esita ad adoperarla quando vuole e lo ritiene necessario. A parte gli accenni a un tradizionale ambiente post-olocausto (tecnologia decaduta e radioattività letale) e un certo studio antropologico nella descrizione delle civiltà che sopravvivono ancora in questo mondo, la scienza presentata nel libro è «scienza di vita»: tecnologia medica, ingegneria genetica, quelle scienze cioè che l’autrice ha avuto modo di approfondire nel corso dei suoi studi e che al tempo stesso più si addicono alla sua sensibilità femminile.
Il popolo della Terra in cui si muove Snake, ad esempio, apparentemente «primitivo» se giudicato dall’assenza delle tecnologie «dure», è in grado di controllare la propria fertilità tramite tecniche biologiche molto sofisticate. Il pony-tigre di Snake è un prodotto delle sue stesse ricerche genetiche, e i mortali serpenti sono stati trasformati in strumenti medici dall’ingegneria biologica. Snake, la guaritrice vagabonda, non è uno sciamano tribale, ma un freddo professionista con alle spalle un allenamento durissimo e secoli di ricerche scientifiche.
Ci sembra, in definitiva, che Il serpente dell’oblio sia la prova delle possibilità della fantascienza moderna, una fantascienza attenta allo stile, alla cura degli aspetti psicologici dei personaggi, agli sviluppi più sofisticati delle varie scienze (da quelle «hard» a quelle «soft», come in questo caso), e al contempo sempre centrata sulla «narrazione», sull’impianto dell’avventura tradizionale. Una fantascienza che ha imparato la lezione delle donne senza perdere però la sua freschezza, il vigore tipico dei temi e motivi che l’hanno caratterizzata dalla sua nascita a oggi. Ci sembra altresì che quest’opera dimostri oltre ogni ragionevole dubbio il talento di narratrice nata di Vonda McIntyre, un’autrice da seguire con interesse e attenzione.
Sandro Pergameno
L’AUTRICE
Vonda Neel McIntyre (Louisville, 28 agosto 1948) è un’autrice di fantascienza statunitense. Vonda ha iniziato la sua carriera di scrittrice frequentando agli inizi degli anni settanta il Clarion Science Fiction & Fantasy Writers’ Workshop, un corso di sei settimane focalizzato sullo scrivere romanzi di genere fantascientifico e fantasy. Già nel 1973 riceve il suo primo premio Nebula per il suo racconto Of Mist, and Grass and Sand che successivamente sarà ampliato fino a diventare il romanzo Il serpente dell’oblio(Dreamsnake, 1978), vincitore del premio Hugo e del Nebula come miglior romanzo. Oltre a scrivere romanzi autonomi si è dedicata anche a scrivere storie ambientate negli universi di Guerre stellari e Star Trek. È stata lei a dare il nome Hikaru al signor Sulu, il famoso personaggio di Star Trek, nel suo romanzo Effetto entropia (The Entropy Effect, 1981). Il nome diventerà ufficiale solamente con il sesto film, Rotta verso l’ignoto (1991), dove lo scrittorePeter David convincerà il regista Nicholas Meyer a inserirlo nella pellicola.