I MAGHI (The Magicians, 1954) di J.B. Priestley

Articolo di Tea C.BlancJohn Boynton Priestley è uno scrittore su cui si dribbla, in Italia e non solo, dimenticato com’è sotto il peso di altri nomi spinti negli ultimi decenni. Complice anche il fatto che la critica e l’accademia lo hanno sempre sminuito o etichettato malamente: famosa e pregiudizievole la stroncatura della signora Virginia Woolf che lo definì “commerciante delle lettere”, per poi cadere nella stupefacente ammissione che mai lo aveva letto né mai lo avrebbe letto (The Diary of Virginia Woolf, volume 3). Forse mister Priestley ai suoi occhi valeva quanto un parvenu, d’altronde la sua estrazione sociale non era granché, ma con più probabilità ci sapeva fare come pochi, perché si rivelò prolifico scrittore e, nonostante fosse autore di spessore, i suoi romanzi e le opere teatrali ottennero un grande successo di pubblico. O forse è stata una personalità troppo sincretica e premurosa nei confronti del genere umano per essere compreso da tutti. D’altronde erano periodi di modernismo: la letteratura e l’arte dovevano essere “alte”, incomprensibili alla massa, canonizzate da una intellighenzia mal disposta verso il dialogo o qualsiasi forma di cultura popolare. In questo quadro si capisce bene come gli obiettivi di Priestley, volti invece a rendere letteratura e teatro un mezzo di autoevoluzione per l’individuo, cozzassero singolarmente contro i propositi di chi alla comunità umana era poco interessato. Priestley, infatti, fu convinto sostenitore che un rinnovamento personale non possa scendere dall’alto, ma provenga piuttosto dal di dentro, da un lavoro fatto in prima persona.

Picture No. 100785681 – J.B. Priestley, © Mary Evans / Archivi Alinari

Nato nel 1894 a Bradford, pubblicò quasi fino all’ultimo di una lunga vita (conclusa nel 1984) dedicata alla letteratura in ogni sua forma: narrativa, teatro, saggistica, critica, cinema, oltre a dedicarsi al giornalismo televisivo e radiofonico, dando una nuova impronta a quest’ultimo con la sua personalità accattivante quando ancora la BBC era ancorata a un sistema d’informazione trasmesso in una forma stringata e anonima.

Ma l’equazione prolifico=commerciale (o dozzinale) male si addice a J.B. Priestley perché basta leggere un suo romanzo, per esempio I maghi di cui parlerò, per capire che nella sua scrittura forma e contenuto trovano eccellenti equilibri e un cervello e un cuore coraggiosi, oltre a un considerevole substrato filosofico e metafisico.
Fautore di tematiche profonde e coinvolgenti che spaziavano dal sociale al politico, dal costume alla cultura, dalla filosofia alla comunicazione, il grande pubblico si dimostrò sempre sensibile e intuitivamente ben disposto al suo messaggio al punto che, nonostante la Seconda guerra mondiale imminente e poi ancora durante la guerra in corso, i suoi spettacoli teatrali stavano in cartellone per mesi superando ogni record di replica. A guerra finita, il pubblico ad acclamarlo fu diverso, non più inglese che in quel momento si dimostrava poco perspicace ai possibili pericoli dell’individualismo sociale e del liberismo economico (An Inspector calls, Un ispettore in casa Birling, 1945), ma russo e tedesco, per poi tornare acclamato e profondamente sentito in patria in seguito ai risvolti avuti con il governo conservatore di Margaret Thatcher.

2 - i maghi Priestley2 – J.B. Priestley: “I maghi” (Garzanti, 1954)

I maghi (The magicians) fu pubblicato nel 1954, e nello stesso anno uscì la prima e unica traduzione italiana, di Ugo Andreis, nella bella edizione con sovraccoperta dell’editore Garzanti (collana Romanzi Moderni). Procurarselo è relativamente facile nei siti dedicati alla vendita di libri rari o fuori stampa. Ma c’è sempre la possibilità di un prestito da una delle biblioteche nazionali.
L’azione prende avvio durante la riunione plenaria di una fiorente industria inglese in cui il brillante e capace direttore generale, il nostro protagonista sir Charles Ravenstreet, viene scalzato dalla direzione perché subentri una nuova generazione di capitano che si sta diffondendo un po’ dovunque, un genere di conduttori che nulla sa di lavoro e di tecnologia, ma sa vendere e vendersi. Nulla a che vedere con la serietà e la competenza di Ravenstreet, uomo e ingegnere che ha dedicato la vita al lavoro, il quale, di fronte alle superficiali necessità dei nuovi tempi preferisce lasciare il luogo dove sempre ha profuso la sua creatività professionale. Ma il rivolgimento lo lascia disorientato e perso perché ora c’è un vuoto che non sa come colmare. Persona tutt’altro che stupida, fin troppo realistica e ponderata, capace di un dialogo interiore lucido e disincantato nei confronti di se stesso e del prossimo senza che questo vada a turbare la sua emotività o lo lasci esacerbato e sconfitto, si imbatte mentre sta andando in auto alla sua villa di campagna in tre uomini anziani restati senza ricovero, dopo che la locanda in cui stanno pernottando è stata abbattuta da un aereo che ha perso il controllo. Ravenstreet si ferma sul luogo della tragedia perché conosce i proprietari con i quali è in rapporto di amicizia, restati quasi tutti vittime dell’incidente, e poi invita i tre vecchi nella sua villa finché non decidano come continuare il loro viaggio.
Da subito i nuovi inquilini dimostrano di essere personalità singolari e risvegliano in Ravenstreet un interesse che nemmeno lui sa giustificarsi. Non sono quello che sembrano, dietro il loro atteggiamento indovina molto di più e capire chi siano diventerà di primaria importanza per la sua vita. E per quella di molti altri.

J.B. Priestley ha molto da dire ancora oggi, seppure sia vissuto in un tempo dove la Rete non si era ancora appropriata della vita laterale di buona parte del pianeta. C’è infatti una “lateralità” sommersa nell’essere umano, e lo scrittore britannico l’aveva intuita e saputa raccontare fin da prima, indovinandone i giochi negativi e positivi.
Ci sono momenti storici in cui questa lateralità soffocata appare più esaltata che in altri, come quello odierno dove il territorio digitale ha permesso a una quantità enorme di golem personali di immergersi nel cicaleccio planetario generando forme dense e imprecisate, percepite dalla folla in modo vago, come una sorta di presagio, una nuvolaglia all’orizzonte che ancora non si sa se darà tempesta o solo faccia finta, una sorta di imbuto pronto a scoppiare. Forme mai portate veramente in superficie perché la moltitudine si accontenta di registrarle appena, restano movimenti quasi inconsci, subito sepolti dalla superficialità dei cuori e dei cervelli.
È una lateralità che potremmo anche chiamare un altro luogo. Che nel profondo sappiamo che esiste, sta lì davanti a noi, ma quasi nessuno osa ricordare, tanto meno visitare. Ci si accontenta di chiamarlo con altri nomi, questo altro luogo, con dei simboli non compresi, come quando raccontiamo una fiaba di cui ci sfugge il reale significato, nascosto dietro principesse e mele, cappucci rossi e lupi, mostri e belle, draghi e streghe. Senza comprendere appieno che attraverso le principesse, passando per tutto il resto fino alle streghe e ancora di più, stiamo raccontando la nostra vita e la realtà che ci circonda. Vera e viva.
Così vera e viva da far paura a chi ha rinunciato a viverla e impiegato ogni energia per dimenticarne l’esistenza, se non fosse che l’onere e il risultato di questa dimenticanza siano un presente di squallore e inutilità, un percorso infinito di noia, un punto di non ritorno.

Sono commoventi la semplicità e la sincerità di questo libro, dove semplicità non è sinonimo di banale e ovvio. C’è semplicità quando si riesce a comunicare l’insondabile, quello che le parole non riescono a dire. I giapponesi hanno un modo per descrivere la semplicità nella filosofia zen: i shin den shin, dal mio spirito al tuo spirito, dal mio cuore al tuo cuore. È quando chi insegna e chi apprende hanno una comunicazione diretta, priva degli specchi deformanti di una mediazione. Questo è semplicità estrema, l’insegnamento non arriva dall’esterno, né mediato da parole, sistemi paraverbali o sillogismi, ma viene vissuto realmente e in modo diretto nello stesso momento in cui è pronunciato e ascoltato perché entrambi i soggetti lo stanno vivendo.

È un processo simile a quello in cui si viene coinvolti leggendo I maghi.

3 - The Magicians Priestley3 – J.B. Priestley: “The Magicians” (Heinemann, 1954). Prima edizione britannica

Potrebbe sembrare un paragone azzardato ma, via via che leggevo, ci ho visto un parallelismo con il mondo dei babbani e dei maghi raccontato nella moderna saga di Joanne Kathleen Rowling, Harry Potter. C’è però una differenza fondamentale tra i due: mentre in Harry Potter il mondo dei maghi è il predominante, qui predomina quello dei babbani (così chiama Rowling gli esseri umani normali, non magici) con i loro accenti desolati e fini a se stessi, senza coscienza, intrappolati in una realtà precostituita e accettata a priori. Ne I maghi di Priestley c’è il tormento di chi è babbano e ha visto il mondo dei maghi e l’ha riconosciuto per la vera realtà, nonostante la logica del consenso comune la neghi; infatti tutta la vicenda, assolutamente realistica, serve a far sgusciare il lettore in una breccia dove esiste una dimensione di salvezza e verità tanto lontane e remote quanto a portata di mano, se solo si avessero mente e cuore per vederle.

I maghi è un romanzo scomodo perché la sua metafora narrativa si adatta troppo bene a ogni età, anche alla realtà odierna, e la descrive cruda e con sagacia, provocando ben più di una volta risate divertite e irriverenti verso chi vuol presentarsi con quella compunta serietà che ha l’obiettivo di nascondere propositi vuoti quando non pericolosi obiettivi ai danni dell’intera umanità.

Ne ho tratto una sorprendente impressione: è una storia che fa bene.

44 - J B Priestley at work in his study, 19404 – J.B. Priestley nel suo studio, 1940

A qualcuno la traduzione italiana potrebbe sembrare che pecchi di una voltura “vecchia”. In effetti, in poco più di cinquantanni la lingua italiana (ma anche quella inglese) è cambiata e l’orecchio “moderno” si è assuefatto ormai agli artifici di un linguaggio sintattico che elide soggetti, verbi – se potesse tutto – e spesso dà luogo a periodi di un unico vocabolo.
Nel corso del romanzo a volte ci sono espressioni che potrebbero suonare artificiose o punteggiature sofisticate. Il balbettio rotto e veloce di oggi, continuamente puntato, e il singulto della parola moderna che non lascia respiro ma si erode e si cannibalizza attraverso un’infinità di stop e pause nella tensione di una resa quanto più possibile vicina al tempo che vivono i suoi personaggi, balbettio spesso ingiustificato forse a causa di una trita emulazione di chi questo linguaggio l’ha inventato, non è comunque il linguaggio di Priestley. Che invece ben interpreta un tempo valido sempre.

Il Tempo, una delle tematiche più importanti di Priestley, da lui indagato in ogni suo aspetto, nell’arte, nella letteratura, nella scienza, in antropologia, in metafisica, e di cui scrisse per tutta la vita creando un suo pensiero personale. Anche qui, ne I maghi, dove la vena sottilmente fantastica, e allo stesso tempo dichiarata, provoca un effetto straniante nel lettore introducendolo, grazie al disorientamento indotto, a una nuova concezione di tempo, dove passato presente e futuro non scorrono lineari, ma si intersecano dando luce a una prospettiva diversa. A un futuro diverso, migliore.

5 - Priestley bbc5 – J.B. Priestley durante il programma radiofonico “Postscripts” mandato in onda la domenica sera dalla BBC, nel 1940 e 1941

Come possa essere definito commerciale un autore che si è accorto e che racconta della perdita collettiva di interesse per la vita, di un potere che si serve di tecnologia e mass media controllati per tenersi in piedi, dell’affermazione prepotente di una grossa industria a discapito e morte dei piccoli per poter creare masse dipendenti, mi suona strano. Ma non sono i temi odierni?
Un autore che individua nel senso del tempo collettivo una assuefazione e un’incrinatura pericolose che ci tiriamo appresso dai tempi di Newton, nonostante le teorie della relatività, la meccanica quantistica, i pensieri di John William Dunne, Pyotr Demianovich Ouspenskii, Carl Gustav Jung e ancora tutti i grandi filosofi che del Tempo hanno parlato.

Non solo, che offre una personale esperienza positiva per ovviare a tutto questo.

Può essere che sia arrivato un tempo di riscoperte.
Per chi vuole approfondire c’è l’ottimo saggio della ricercatrice Paola Della Valle, dal titolo: Priestley e il tempo, il tempo di Priestley” (Nuova Trauben, 2016).
E per chi non ama leggere saggi, può leggere direttamente nei romanzi di Priestley, o in una sua opera teatrale. Niente verbosità né filosofeggiamenti, nemmeno linguaggi d’avanguardia a rendere difficoltosa la lettura. Un contatto diretto.

Tea C. Blanc