Speciale Star Trek #1: Tutto ha inizio…

Articolo di Omar SerafiniStar-Trek-Cast-star-trek-the-original-series-7760228-519-768Spazio, ultima frontiera. Eccovi i viaggi dell’astronave Enterprise durante la sua missione quinquennale diretta all’esplorazione di nuovi mondi, alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà; fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima.

È l’8 settembre 1966: la NBC manda in onda l’episodio Trappola umana (The Man Trap) di un nuovo telefilm di fantascienza intitolato Star Trek e destinato a cambiare per sempre le coordinate del genere.

Cinquant’anni dopo, la serie ideata e prodotto da Gene Roddenberry sotto il marchio della Desilu, la compagnia di Lucille Ball e Desi Arnaz (che sarà acquistata il 15 febbraio 1967 dalla Paramount che, così, si troverà un tesoro in casa: la possibilità di sfruttare commercialmente, assieme all’autore, i diritti di Star Trek. E proprio gli enormi proventi dello show di Roddenberry, anni dopo, salveranno lo studio dal fallimento), ha figliato cinque show catodici, 13 film per il grande schermo, una serie animata, centinaia di libri, riviste, fan club, siti web, giochi di ruolo, infiniti gadget: insomma, i viaggi a velocità curvatura della Flotta Stellare della Federazione Unita dei Pianeti si sono trasformati in autentico fenomeno culturale (e commerciale), proponendosi al tempo stesso quali efficacissime letture metaforiche delle contrastanti dinamiche proprie delle società occidentali del 20° secolo. La cui complessità è resa alla perfezione proprio dall’articolato e variegato universo di fantasia della serie, fatto di razze aliene e pianeti sconosciuti, esplorazioni di remoti angoli della Galassia ma anche incursioni nei più reconditi recessi dell’animo umano: è davvero profonda, insomma, l’aderenza alle caratteristiche mentali di un pubblico cresciuto in una società sempre più tesa verso il progresso tecnologico e il superamento continuo del limite precedente, per arrivare – proprio come fanno i protagonisti di Star Trek, «…là dove nessun uomo è mai giunto prima.» D’altra parte, quelli di “frontiera” e di “viaggio” sono concetti fondamentali per la cultura americana, centrali all’interno di due generi fortemente codificati e abbastanza simili tra loro, come il western e la fantascienza: e quale viaggio può essere più affascinante di quello attraverso le ignote profondità di un nuovo “selvaggio West” com’è lo spazio esterno?

Enterprise_firing_phaser_proximity_blastCosì Star Trek narra «…i viaggi della nave stellare Enterprise» in un futuribile 23° secolo, alla ricerca di nuovi mondi da esplorare, si badi bene: non da conquistare!, per accrescere sempre di più la conoscenza umana dell’universo. Sul ponte di comando della USS Enterprise NCC-1701 di classe Constitution dirigono le operazioni l’aitante e impulsivo capitano James Tiberius Kirk (William Shatner), per gli amici Jim; il suo primo ufficiale Spock (Leonard Nimoy), per metà terrestre e metà vulcaniano, con il viso scarno e spigoloso, le inconfondibili orecchie a punta, l’assoluta razionalità abbinata a un totale controllo delle proprie emozioni; il sanguigno ufficiale medico Leonard “Bones” McCoy (DeForest Kelley): personaggi che sono entrati a far parte dell’immaginario di milioni di telespettatori in tutto il mondo, assumendo quasi i tratti leggendari degli antichi eroi omerici. Accanto a loro, però, altri caratteri rendono più corale la struttura del telefilm, arricchendolo: dall’efficientissimo ingegnere-capo Montgomery Scott detto “Scotty” (James Doohan) al sensuale tenente Uhura (Nichelle Nichols, prima donna di colore presente sul ponte di comando, con compiti di ufficiale alle comunicazioni), dal bizzarro signor Hikaru Sulu (George Takei) all’attendente Janice Rand (Grace Lee Whitney) e all’infermiera Christine Chapel (Majel Barrett, la moglie di Roddenberry), fino al guardiamarina russo Pavel Andreievich Cechov (Walter Koenig), personaggio-simbolo del disgelo in corso nei confronti dell’URSS.

Rispetto alla fantascienza televisiva degli anni 50, infatti, il rovesciamento tematico è quasi totale: d’altra parte, i Silent Fifties sono terminati da un pezzo, le paranoie da Guerra Fredda sembrano (sembrano…) superate, i campus universitari sono già in fermento, la speranza degli americani in una società migliore non è stata spezzata nemmeno dallo shock per l’omicidio del presidente Kennedy, il sempre più inarrestabile progresso tecnologico inizia a essere vissuto con minor sospetto e timore. Così, anche nei palinsesti dei network televisivi si crea lo spazio per una serie di fantascienza dai presupposti innovativi, che sappia proporre personaggi dall’inedita carica umana e, sorprendentemente, un rispetto per “l’altro da sé” e per la vita in ogni sua forma, anche la più strana e lontana dal senso comune: IDIC, ovvero “Infinite Diversità in Infinite Combinazioni”, diventa l’acronimo che meglio esprime il sentire dello show e che, ben presto, assurge ad autentica filosofia di vita, portatrice di un messaggio di pace e fratellanza universale e di una visione ottimistica del futuro.

Gene RoddenberryDal punto di vista formale, la serie di Roddenberry non presenta novità di rilievo e segue abbastanza fedelmente le regole della televisione seriale più tradizionale: un’infinità di primi e primissimi piani sui vari personaggi, con le inquadrature che ogni tanto s’allargano quando questi giungono su pianeti sconosciuti oppure interagiscono con razze aliene; scenografie planetarie piuttosto povere e che quando entrano nell’obiettivo si rivelano addirittura risibili; efficace commento sonoro sinfonico (di Alexander Courage) a conferire ulteriore pathos alle vicende. Il fascino estremo del telefilm, dunque, risiede altrove: precisamente nella sua capacità di familiarizzare i telespettatori con i protagonisti, che ben presto entrano a far parte della quotidianità degli americani che seguono lo show, quasi come se fossero membri aggiunti delle loro famiglie.

E se da un lato anche questo processo d’iterazione non fa che rispettare una regola basilare della serialità, dall’altro propone differenze profonde, perché i personaggi non rappresentano soltanto generici valori simbolici come possono essere, per esempio, il coraggio e la responsabilità per Kirk, la logica e la freddezza per Spock e l’umanità e l’impulsività per McCoy, ma sono innanzitutto ciascuno fedele a se stesso, con i propri tic, debolezze, ossessioni: «Tutto ciò, insomma, che conferisce loro – scrive Franco La Polla, in quella che è la più acuta monografia critica dedicata a Star Trekle proporzioni della verità. (…). Quella che è tipica della poesia e del mito, una sorta di accordo tacito fra opera e pubblico per cui ogni azione, ogni dettaglio nel comportamento di un personaggio fa parte di un rituale suo personale che contribuisce a riconoscerlo in quanto diverso dagli altri, ma anche in quanto individuo proprio per questo in stretti relazione con gli altri, che di lui conoscono perfettamente ciò che lo qualifica e caratterizza.» (Franco La Polla, Star Trek. Foto di gruppo con astronave, PuntoZero, Bologna 1996, pp. 14-15).

Questi motivi, ovviamente, emergeranno con il trascorrere degli episodi. Lo Star Trek “classico” (che d’ora in poi, per comodità, chiameremo ST:TOS), però, suscita un’enorme impressione sugli appassionati americani di fantascienza già al suo esordio, nel 1966. È indicativo, per esempio, il racconto che Allan Asherman fa della sua esperienza alla World Science Fiction Convention di Cleveland, Ohio, dove ha l’occasione di vedere in anteprima, il 4 settembre, il primissimo episodio presentato pubblicamente. «Non c’era niente di infantile – scrive nell’introduzione alla sua Guida alla serie – nell’episodio Oltre la galassia – titolo originale Where no man has gone before -. Ci aspettavamo un ragazzino o un robot dalla battuta facile, ma non comparvero. Perfino la musica era cupa, seria e spettacolare. Ci dovevano essere più di 500 spettatori quel giorno. Quando l’Enterprise raggiunse i confini della galassia mille occhi si spalancarono. Il respiro di cinquecento persone si fece più rapido, per quel meraviglioso piacere che tutti gli appassionatì provano quindo vedono il loro argomento preferito trattato come si deve (…). Era la serie televisiva fantascientifica che tutti noi volevamo vedere. L’impressione fu enorme (…). Dopo la proiezione non riuscivamo ad alzarci (…). Finalmente Gene Roddenberry interruppe il silenzio. Chiese l’opinione del pubblico; noi ci alzammo in piedi ad applaudire. Ci fece un sorriso che ricambiammo prima di assalirlo. Per poco non ce lo caricammo sulle spalle per portarlo in trionfo. Da quel momento la Convention si spaccò in due fazioni. Quelli di noi che avevano ammirato Oltre la galassia non parlavano d’altro. Chi non aveva ancora visto la luce pensava che fosse strano riversare tanta attenzione sull’episodio di una serie televisiva.» (Allan Asherman, Guida ufficiale a Star Trek Serie Classica, Fanucci, Roma 1997, pp. 10-11).

Star-Trek-serie-classica

Infatti la fantascienza nella televisione americana degli anni 50 e dei primi 60 è concepita per un pubblico essenzialmente infantile; gli stessi più maturi The Science Fiction Theatre (1955), L’uomo e la sfida (The Man And The Challenge, 1959), Men Into Space (1959), The New People (1959) e One Step Beyond (1959) restano ben lontani dall’inusitata profondità tematica di ST:TOS; mentre Ai confini della realtà (The Twilight Zone) va considerato come appartenente al più ampio ambito del fantastico, piuttosto che allo specifico fantascientifico. Anche nel periodo durante il quale ST:TOS è concepito e poi mandato in onda mentre il cinema dell’età kennediana continua ad aprirsi a numerose elaborazioni fantastiche “mature” di temi come, per esempio, la paura del conflitto atomico: si pensi soltanto a Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove, Or: How I Learned To Stop Worrying And Love The Bomb, 1964) di Stanley Kubrick, la televisione seriale statunitense riesce a offrire, per ciò che concerne la fantascienza pura, soltanto produzioni avventurose, spettacolari ma abbastanza fini a se stesse, come quelle di Irwin Allen (definito dai critici a stelle e strisce “il Jules Verne della science fiction catodica”): Viaggio infondo al mare (Voyage To The Bottom Of The Sea, 1964), Lost In Space (1965), Kronos – Sfida al passato (The Time Tunnel, 1966) e La terra dei giganti (Land Of The Giants, 1968). Unico autentico progenitore di ST:TOS, insomma, può essere considerato, come detto, l’antologico The Outer Limits di Leslie Stevens.

ST_TOS_CastIl telefilm di Gene Roddenberry, quindi, è percepito subito come qualcosa di diverso. Riesce, infatti, a produrre una sintesi popolare efficacissima di questioni decisamente significative: per esempio, la rappresentazione futuristica di temi classici della mitologia antica e degli schemi simbolici della “ricerca” e del “viaggio” (lo spazio, secondo lo slogan della serie, diventa l’autentica, ultima frontiera per i nuovi pionieri di domani: come detto, il “selvaggio West” del lontano futuro); la messa in scena, in piena esplosione del movimento per i diritti civili, della profonda crisi che investe i rapporti tradizionali tra razze diverse negli USA (attraverso la composizione di un equipaggio realmente multietnico, nel quale occupa un ruolo di primissimo piano un mezzosangue alieno); la rievocazione del recente passato paranoide della Guerra Fredda e del “muro-contro-muro” tra superpotenze all’insegna delle armi nucleari. Mi sono tante le problematiche etiche e persino filosofiche che emergono nel corso della serie, d’altra parte concepita partendo da un preciso imperativo morale: quello della non-interferenza nelle vicende delle culture “altre” incontrate sui pianeti visitati di volta in volta dall’Enterprise (anche se Kirk e compagni non sempre si attengono a quella che è chiamata Prima Direttiva). L’altro, il diverso non coincide più con il nemico da temere e, magari, soggiogare: va compreso, conosciuto (magari studiato, suggerisce implicitamente la serie… ), ma mai (o quasi mai) combattuto. In ST:TOS, l’unica razza aliena davvero ostile, innanzitutto dal punto di vista politico, è quella dei Klingon, il cui impero è in guerra aperta con la Federazione Unita dei Pianeti. Per il resto, molto spesso, quelli che sembrano “cattivi” all’inizio di un episodio si rivelano, poi, semplicemente creature in lotta per la sopravvivenza propria e dei propri simili: come il Gorn di Arena (id.) oppure la tenera Horta, una mamma aliena preoccupata per i suoi piccini, di Il mostro dell’oscurità (The Devil In The Dark).

Il mostro dell’oscurità (The Devil In The Dark)L’assunto della serie diventa, così, uno “strumento” molto efficace per esplorare questioni di carattere etico-giuridico, nell’ambito dei rapporti tra culture in contatto e identità umane differenti. Tutto ciò, inoltre, è reso ancora più ricco e affascinante dalla scelta di caratterizzare i vari personaggi in modo più accurato rispetto agli standard delle produzioni televisive (pur nel rispetto dell’essenzialità tipica di un format di durata breve com’è il telefilm), proprio per riuscire a dare maggiore efficacia al trattamento che viene fatto delle tante istanze, spesso contraddittorie, degli USA della seconda metà del 900. Space opera umanistica nel senso più profondo del termine, ST:TOS deve molto del proprio fascino pluridecennale ai personaggi presenti sul ponte di comando dell’Enterprise e ai modi in cui essi interagiscono: dai confronti ricorrenti tra i membri della triade di protagonisti, ben più che semplici referenti simbolici, come detto, al pari di tanti altri di serie precedenti e successive, ma caratteri identificabili innanzitutto in quanto se stessi: Kirk, Spock, McCoy; alle tante gustose variazioni con i vari Scotty, Sulu, Uhura e così via. Il palcoscenico ricorrente dello show è l’astronave-casa Enterprise, luogo-simbolo che si propone come imprescindibile punto di coesione tra razze e culture tanto differenti, come sono quelle dei membri della famiglia (perché di questo si tratta) di ST:TOS; essa diventa l’indispensabile collante tra le loro personalità, il riferimento certo, l’approdo sicuro sempre pronto, alla stregua di un ventre materno, ad accogliere in sé i propri figli nel momento del pericolo e dell’incertezza. La nave spaziale assurge, così, al ruolo di autentica coprotagonista, differenziandosi da tutto ciò che s’è visto fino a quel momento, sia al cinema che in televisione: è molto più di un semplice elemento scenografico, ma assume un valore simbolico importantissimo nel processo di familiarizzazione tra i vari personaggi e in quello tra loro e gli spettatori. «Spesso coinvolto in una continua ricerca dell’Eden, l’equipaggio ha in ultimi analisi il suo vero Eden nell’Enterprise, per cui non meraviglia che Scott in Animaletti pericolosi (The Trouble With Tribbles), sopporti qualsiasi insulto dai Klingon tranne quelli pronunciati contro l’astronave; né che Spock, in La ragnatela tholiana (The Tholian Web), tenti di portare in salvo la nave davanti a un McCoy che gli inveisce contro perché Kirk potrebbe essere ancora vivo da qualche parte nello spazio.» (Franco La Polla, Star Trek cit., p. 17).

Al di là del tempo (The Naked Time)E proprio Kirk, com’è ovvio che sia, essendo il capitano, vive il rapporto più profondo e complesso con l’Enterprise, da lui apertamente considerata quasi come la sua donna in più d’un episodio: per esempio, in L’espediente della carbonite (The Corbomite Maneuver) e Io, Mudd (I, Mudd); ma la prima volta accade già nel settimo episodio, il bellissimo Al di là del tempo (The Naked Time), quando un Kirk contaminato dal misterioso virus ubriacante che risveglia sensazioni primordiali in vari membri dell’equipaggio (persino Spock, in modo commovente, vive un conflitto tra natura umana e vulcaniana, dopo che l’infermiera Christine Chapel ammette di amarlo), viene lacerato interiormente, come un amante geloso, dai sentimenti che prova verso la sua nave: la odia perché gli impedisce di condurre un’esistenza normale, ma sa di non poterne fare a meno, perché è il vero punto focale del suo amore. Non è un caso, quindi, che lo stesso Kirk, in un altro episodio giustamente celebre come Umiliati per forza maggiore (Plato’s Stepchildren), baci proprio

Uhura, la quale rappresenta quasi l’incarnazione stessa dell’Enterprise, in quanto ufficiale alle comunicazioni e quindi sua “portavoce”. Quello tra Kirk e Uhura, tra l’altro, è in assoluto il primo bacio interrazziale mostrato all’interno dello show di un network statunitense. È il 22 novembre 1968 e, ancora una volta, ST:TOS riesce a essere specchio fedele delle contraddizioni della società e, al tempo stesso, prodotto modernissimo e anticipatore: il bacio tra bianchi e neri, infatti, costituisce si un’assoluta novità per la TV a stelle e strisce, ma nella trama dell’episodio è giustificato (nel senso di dato sotto coercizione e inserito tra le tante umiliazioni che i personaggi sono costretti a subire da parte dei perversi alieni Platoniani). Proprio in quanto fedele specchio degli USA del periodo, comunque, ST:TOS riflette anche altrove le tante tendenze contraddittorie che attraversano la società americana, proponendo diverse situazioni che, riviste oggi, possono apparire persino reazionarie: si pensi alla dura presa di posizione verso il movimento hippie presente in Viaggio verso Eden (The Way To Eden), oppure al fiero colpo inferto alle istanze femministe dell’epoca contenuto nel conclusivo L’inversione di rotta (Turnabout Intruder).

Il duplicato (The Enemy Within)Spesso il telefilm si sofferma sulla natura duplice dell’essere umano, diviso tra spinte primordiali e aneliti razionali. In tal senso appare persino paradigmatico un episodio come Il duplicato (The Enemy Within), quinto della serie e scritto dal grande Richard Matheson: si tratta dell’ennesima variazione sul mito stevensoniano del dottor Jeckyll e del signor Hyde, con Kirk scisso fisicamente in due metà di se stesso, in seguito a una disfunzione del meccanismo per il teletrasporto, che incarnano ciascuna il suo lato buono e quello cattivo. La nota inquietante che permea l’intera vicenda è rappresentata dal fitto che tutte le capacità di comando del capitano appartengono alla sua parte oscura, mentre quella “positiva” si mostra man mano sempre più debole e incapace di prendere qualsiasi decisione, anche a rischio della vita stessa dei propri uomini. Come a dire, semplificando, che Bene e Male sono più simili tra loro di quanto comunemente si possa e voglia credere, e che in ciascun aspetto dell’animo umano convivono elementi contraddittori ma non necessariamente inconciliabili. Il duplicato, però, è un episodio importante anche da un altro punto di vista, per l’importanza drammaturgica e metaforica ricoperta dal congegno per il teletrasporto. Kirk, infatti, si ritrova sdoppiato in seguito a un malfunzionamento del meccanismo, che serve a scomporre i corpi per ricomporli altrove e, viceversa, di nuovo sull’Enterprise.

Tale processo, in ST:TOS, può essere letto anche come metafora del pastiche postmoderno tra generi differenti, tanto comune nella fiction seriale televisiva e, in particolar modo, chiaramente riscontrabile nel telefilm di Roddenberry, in onda tra il 1966 e il 1969, cioè quando la Hollywood classica dello studio system e dei suoi modi di produzione standardizzati per forme e contenuti è già morta da un bel pezzo. In molti episodi, allora, è come se la materia narrativa si scomponesse, attraverso un immaginario teletrasporto, per ricomporsi poi in modi e forme inattesi: si pensi al gangster movie di Cicago Anni ’20 (A Piece Of The Action, il titolo italiano riporta il nome della città di Chicago scritto proprio così), all’horror gotico di Il ritorno degli arconti (The Return Of The Archons) e Il gatto nero (Catspaw), al western di Lo spettro di una pistola (Spectre Of The Gun) oppure al peplum di Nell’arena coi gladiatori (Bread And Circuses).

Talosians_3Esempio perfetto di estetica neobarocca, per le sue caratteristiche metalinguistiche e autoreferenziali, è inoltre un episodio come L’ammutinamento (The Menagerie), di lunghezza doppia e, quindi, andato in onda diviso in due parti: la trama fa tornare in scena il capitano Pike (interpretato da Jeffrey Hunter), predecessore di Kirk alla guida dell’Enterprise e già protagonista del primissimo pilot di ST:TOS, Lo zoo di Talos (The Cage), realizzato nel 1964 ma bocciato dal network perché giudicato “troppo oscuro e cerebrale”. Ed è proprio il girato di questo pilota mai trasmesso a essere inserito in L’ammutinamento: le immagini, giustificate da una cornice narrativa che dà loro la necessaria coerenza, «vengono rimontate, con un intelligente piano rielaborativo dei materiali, e producono inevitabilmente un mix metalinguistico. Un tipico anticipo dei mescolamenti “neobarocchi” degli anni 80, che rivela anche le intime voglie riflessive della serie: la vita come sogno, la dialettica vita/ morte, il sottile discrimine tra realtà e fantasia (…). C’è insomma, nella series, una sorta di “taylorizzazione” del prodotto filmico, per cui le forme tradizionali e i generi tradizionali vengono frammentati e ricomposti in una nuova catena di aggregazioni e in un nuovo modello di efficienza. Vengono in mente le analisi di Fredric Jameson sul pastiche, idea mutuita dalla scuola di Francoforte, come combinazione di generi, convergenza di culture e media diversi, in un universo iconico multilaterale postmoderno (…). Nella series si ricompongono in maniera nuova, si smaterializzano e rimaterializzano le particelle atomizzate nel processo di esplosione del genere.» (Vito Zagarrio, Il cavaliere, la morte, il diavolo. Ontologia di Star Trek, in Franco La polla (a cura di), Star Trek. Il cielo è il limite, Lindau, Torino 1998, p. 26).

Uccidere per amore (The City On The Edge Of Forever)Viaggio di nuova concezione anche tra i generi, dunque, oltre che nelle profondità dell’universo. Ma novità sostanziali, nella fantascienza televisiva secondo Roddeberry, si manifestano pure in relazione a quello che è un altro topos della science fiction: il viaggio nel tempo. Nello straordinario Uccidere per amore (The City On The Edge Of Forever, scritto da Harlan Ellison e, secondo molti, il miglior episodio della serie), Kirk e Spock tornano indietro nel tempo, attraverso un portale nel quale si è tuffato poco prima McCoy, per cercare di impedire che le azioni del loro amico nel passato possano cambiare il presente dell’Enterprise: così, buona parte della puntati è ambientata all’inizio degli anni 30, nella New York della Grande Depressione. Qui, Kirk s’innamora di una ragazza, Edith Keeler (interpretata da Joan Collins), che però, in futuro, sarà inconsapevolmente responsabile della morte di milioni di esseri umani: così, per amore di Edith e dell’umanità, il capitano prende la decisione più difficile e sacrifica la donna amata pur di salvare il futuro del mondo. La grande novità di quest’episodio è rappresentata dalla concezione stessa del tempo, non più inteso semplicemente in modo lineare, e, soprattutto, dal battesimo televisivo ufficiale del seminale concetto di paradosso temporale (in realtà, con meno sistematicítà, il concetto è già al centro di un paio di episodi di The Outer Limits), che dà la possibilità a un ipotetico cronoviaggiatore di tornare indietro nel passato per modificare il futuro attraverso le sue azioni: l’idea, com’è noto, farà sentire la propria influenza su un’infinità di pellicole fantastiche dei decenni a venire; bastino i celeberrimi esempi di due film-chiave degli anni 80, come Terminator (The Terminator, 1984) di James Cameron e Ritorno al futuro (Back To The Future, 1985) di Robert Zemeekis, con i loro rispettivi sequel.

TOStitleNonostante la ricchezza incredibile di temi e suggestioni, ST:TOS però riesce a restare in onda soltanto per tre stagioni e 78 episodi, fino al 3 giugno 1969; con un discreto successo, ma che non riesce comunque a evitarne la cancellazione e che, soprattutto, non lascia minimamente presagire la nascita del culto che si svilupperà di lì a qualche anno. Sono le continue repliche sulle frequenze di una NBC subissata da lettere di protesta e su vari canali privati, infatti, a tener vivo l’interesse nei confronti dello show per tutti gli anni 70, mentre Gene Roddenberry tenta più volte di realizzare una nuova serie catodica. Tra giugno e novembre 1977 il produttore sembra essere riuscito a convincere i vertici della Paramount e inizia a lavorare a Star Trek: Phase II, programma che dovrebbe inaugurare il nuovo network televisivo della major californiana. Le cose cambiano nuovamente, però, e così la space opera riesce a tornare in vita soltanto in formato cinematografico, alla fine del 1979, con un pubblicizzatissimo kolossal diretto da Robert Wise e prodotto sempre dalla Paramount, Star Trek (Star Trek: The Motion Picture), che incassa più di cento milioni di dollari solo negli USA e dà vita a due sequel nel giro di pochi anni: Star Trek II. L’ira di Khan (Star Trek II: The Wrath Of Khan, 1982) e Star Trek III. Alla ricerca di Spock (Star Trek III: The Search For Spock, 1984). Il successo crescente e il rinnovato interesse per i personaggi di Roddenberry rende, dunque, finalmente maturi i tempi per il grande ritorno della serie anche in televisione.
(continua…)

Omar Serafini

 

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