Ci sono e ci sono stati scrittori di fantascienza che amano le collaborazioni, cioè scrivere un racconto o un romanzo insieme a un loro collega. Mi viene in mente quella grande coppia di geniali artigiani della scrittura, Henry Kuttner e Catherine Lucille Moore, marito e moglie entrambi scrittori di fantascienza, fantasy, gialli. Lui, per esempio, cominciava un racconto la sera tardi, ma a metà gli prendeva il sonno e lo mollava col foglio incompleto nella macchina da scrivere; la mattina si svegliava e scopriva che l’aveva finito sua moglie, e non si riusciva a capire dove aveva interrotto lui e dove aveva continuato lei. E le cose scritte in comune uscivano sotto lo pseudonimo Lewis Padgett.
Altro grande appassionato di collaborazioni è Harlan Ellison, nonostante il famigerato caratteraccio ne ha realizzate tante da pubblicare un intero volume di racconti scritti a quattro mani.
Dick invece non era proprio il tipo, anche se due romanzi li ha scritti insieme ad altri scrittori. Lo ha fatto in un momento problematico della sua vita, in quei primi anni sessanta in cui il trasloco dalla Baia di San Francisco a Orange County e tutto quel che l’aveva portato a quel passo l’avevano scombussolato a tal punto che la sua prodigiosa produttività pre-1970 sembrava definitivamente perduta.
Parliamo allora di Deus Irae, uscito in America nel 1976, pubblicato in Italia nello stesso anno dall’editrice Libra di Ugo Malaguti, e nato sviluppando spunti già presenti in un precedente racconto di Dick, “Il Grande C”.
Le prime cinquanta pagine di questo romanzo erano state scritte a gran velocità (come al solito) nel 1964, poi però Dick s’era arenato, perché a suo dire non aveva ancora una sufficiente conoscenza della teologia per sviluppare la storia come avrebbe desiderato. Quattro anni dopo incontra Roger Zelazny, che invece quelle cognizioni le aveva in abbondanza; nasce l’idea di lavorare insieme sull’abbozzo, ma la cosa fu lenta: tra una cosa e l’altra il manoscritto non venne completato prima del 1975.
In realtà l’accoppiata era tutto tranne che vincente. Zelazny è un prosatore raffinato e prezioso; Dick invece ha una prosa che alcuni trovano addirittura pesante e fredda. In realtà ci sono scrittori che impreziosiscono le loro frasi e i loro paragrafi, come ad esempio Zelazny, per l’appunto, o Delany, o Ballard, e poi ci sono quelli che preferiscono una prosa lineare e semplice, come per l’appunto Dick, che apprezzava gli scrittori del Settecento inglese, e consigliava agli amici di andarci piano con gli aggettivi. La differenza di stile tra i due fa sì che il romanzo ne esca squilibrato.
Ma di cosa si tratta? In breve: in un futuro non troppo lontano una guerra nucleare ha distrutto la civiltà, generando mutanti di ogni tipo, come per esempio il protagonista, Tibor McMasters, un “inc”, cioè un incompleto, nato senza braccia e gambe, che si sposta su un carrettino trainato da una mucca e che usa estensioni meccaniche al posto di braccia e pinze al posto delle mani.
Se vi ricorda Hoppy Harrington, il perfido focomelico di Cronache del dopobomba, non dimenticate che Dick aveva la tendenza a popolare i suoi romanzi con personaggi che avevano parecchi tratti in comune, che ricorrevano da un romanzo all’altro (le tante ragazze dai capelli neri, per esempio, oppure gli artisti psicotici). Però Tibor non è un villain, un cattivone come Hoppy; tutt’altro.
La devastazione causata guerra ha anche portato a una rivoluzione religiosa: oltre alla chiesa cristiana, oramai minoritaria, si è affermato il culto dei Servi dell’Ira, gli adoratori del Dio dell’Ira, di cui Carlton Lufteufel (l’uomo che diede il via all’attacco nucleare) è la manifestazione terrena (e Lufteufel è una sorta di avatar di un altro personaggio che sta in Cronache del dopobomba, lo scienziato psicotico Bruno Bluthgeld). Il Dio dell’Ira è tutto il contrario di quello cristiano: non è un buon padre che ci ama e ci protegge, è un bastardo assetato di sangue con un pessimo carattere che ci punisce e ci tormenta. Tibor, che crede nel Dio dell’Ira, è un pittore apprezzato, e per questo incaricato di dipingere un affresco per la chiesa dei Servi dell’Ira; ma al centro dell’affresco ci dovrebbe stare proprio Lufteufel, del quale sopravvive una sola fotografia poco chiara, che inoltre non manifesta sufficientemente l’essenza del dio. Perciò Tibor è costretto a partire alla sua ricerca dell’inquietante personaggio: un’odissea picaresca, che il pittore focomelico affronta insieme a Pete Sands, un cristiano che in realtà ha il compito di non fargli scoprire il vero volto del Dio dell’Ira. I due faranno una serie di incontri (veri pezzi forti del romanzo), che vanno dal Grande C, il computer che filosofeggia ma è oramai impazzito e uccide gli esseri umani, agli uomini-lucertola, alle blatte parlanti, a una scassata autofab che anziché aggiustare la bicicletta di Pete la trasforma in saltarelli, per finire a un gigantesco verme che si definisce Ur-Verme, che Tibor uccide e il cui sangue, in cui infila una pinza dei suoi estensori, dà la capacità di intendere il canto degli uccelli, in una moderna rivisitazione di Sigfrido, Fafnir e l’Anello dei Nibelunghi.
Lufteufel (il cui nome in tedesco sta per “diavolo dell’aria”) vive in un bunker con Alice, una ragazza minorata e va a caccia di topi mutati. Prenderà le spoglie di Schuld, il cacciatore, che con un vecchio elmetto francese della Grande guerra va a salvare Pete e a convincerlo della necessità di uccidere Lufteufel, per essere poi ucciso da Tibor senza che egli ne conosca la vera identità in un autosacrificio che ha qualcosa di intimamente cristiano, e promette una qualche sorta di redenzione. Infine la beffa conclusiva: Pete convince un vecchio ubriacone ad affermare di essere il vero Lufteufel, e fotografandolo e dipingendone il viso, Tibor immortalerà così le spoglie terrene del Dio dell’Ira. Anni dopo, una commissione speciale del culto validerà questo riconoscimento, giudicando quello il vero e solo volto del Dio.
Come notava già Claudio Asciuti, Deus Irae è un romanzo complesso costruito su un gioco di incastri: da un lato le digressioni teologiche e le visioni surreali di di Dick, dall’altro le citazioni letterarie e il lavoro di cesello stilistico di Zelazny. Nel gioco tra questi componenti si rischia di perdersi alcune trovate tutt’altro che disprezzabili: basti pensare alla sindone del volto sanguinante di Lufteufel, conservato da Alice, o alla caravaggesca ritrattistica di Tibor, che dà a un dio il volto di un ubriacone. Da ricordare alcune immagini grandiose, come quella dei topi mutanti che si ritraggono di fronte a Lufteufel, o il Deus Irae che restituisce miracolosamente a Tibor gambe e braccia così che possa inginocchiarsi ad adorarlo, ma poi se le riprende.
(Se qualcuno comincia a chiedersi come mai tutte queste parole tedesche nei romanzi di Dick, ricordiamo che a scuola il nostro aveva studiato la lingua di Wagner e Goethe, e lo parlava discretamente bene; e ricordiamo pure che solo tre anni prima della pubblicazione di questo romanzo era uscito L’arcobaleno della gravità di Pynchon; chi l’ha letto capirà subito a cosa mi riferisco; chi non l’ha ancora letto… che cosa aspetta?)
Umberto Rossi
L’AUTORE
Philip Kindred Dick (Chicago, 16 dicembre 1928 – Santa Ana, 2 marzo 1982) è stato uno scrittore statunitense. La fama di Dick, noto in vita esclusivamente nell’ambito della fantascienza, crebbe notevolmente nel grande pubblico e nella critica dopo la sua morte, in patria come in Europa (in Francia e in Italia negli anni ottanta divenne un vero e proprio scrittore di culto), anche in seguito al successo del film Blade Runner del 1982 liberamente ispirato a un suo romanzo. In vita pubblicò quasi solamente opere di narrativa fantascientifica – un genere all’epoca considerato “di consumo” – ed è stato successivamente rivalutato come un autore postmoderno precursore del cyberpunk e, per certi versi, antesignano dell’avantpop. Gli sono stati dedicati molteplici studi critici che lo collocano ormai tra i classici della letteratura contemporanea. Temi centrali dei suoi visionari romanzi sono la manipolazione sociale, la simulazione e dissimulazione della realtà, la comune concezione del “falso”, l’assuefazione alle sostanze stupefacenti e la ricerca del divino.
Nato a Chicago, con la sorella gemella Jane, in una famiglia dai legami burrascosi (la madre, da lui descritta come nevrotica, divorziò dal padre pochi anni dopo la nascita dei gemelli), Philip Dick trascorse un’infanzia e un’adolescenza solitarie e tormentate: la sorellina morì a poche settimane dalla nascita (Dick le rimase sempre legato, e decise di essere seppellito accanto a lei); dopo il trasferimento in California, frequentò l’Università di Berkeley, ma non concluse gli studi a causa della sua militanza nel movimento contro la guerra di Corea e del suo pacifismo(per continuare gli studi universitari avrebbe dovuto sostenere un corso di addestramento – ROTC – come ufficiale della riserva, all’epoca obbligatorio), che lo portarono ad avere problemi col maccartismo di quegli anni. Iniziò a lavorare in un negozio di dischi dove conobbe la prima moglie, Jeanette Marlin (il matrimonio durò da maggio a novembre ’48). Le sue affermazioni secondo cui in quel periodo avrebbe lavorato in una radio locale non sono mai state provate, anche se è possibile che abbia scritto testi pubblicitari per qualche emittente di Berkeley. Sicuramente la nascita della sua conoscenza e del suo amore per la musica classica precedette gli anni in cui lavorò come commesso nel negozio di dischi.
L’incontro con la fantascienza avvenne, forse per caso, e forse nel 1949 (ma il suo primo racconto, “Stability” Stabilità, pubblicato postumo, fu scritto nel 1947), quando invece di una rivista di divulgazione scientifica ne acquistò per sbaglio una di fantascienza (la circostanza non è certa). Esordì nel 1952 sulla rivista Planet Stories. Lasciata la prima moglie, si risposò con Kleo Apostolides (dal 14 giugno 1950 al 1959), militante comunista di origini greche. In questo periodo pubblicò i primi romanzi e una notevole quantità di racconti. Il matrimonio con Kleo andò in crisi quando Dick si trasferì nella zona rurale di Point Reyes, a nord di San Francisco, in quella Marin County che fu l’ambientazione di diverse opere (tra tutte Cronache del dopobomba). Lì conobbe Anne Williams Rubinstein, che diventò la sua terza moglie (rimasero sposati dal 1º aprile 1959 all’ottobre 1965). Era una donna colta e di forte personalità, vedova e madre di tre figlie, che gli diede una figlia: Laura Archer (25 febbraio 1960). Dick si trasferì a casa di Anne, e per mantenere la famiglia e il tenore di vita della moglie abbandonò la fantascienza, poco remunerativa e per niente prestigiosa, per tentare di occuparsi di narrativamainstream. Ma Dick visse ciò come una sconfitta, di cui considerò responsabile la moglie. Il fallimento come “nuovo” autore fu la goccia; il matrimonio andò a pezzi, Dick si convinse che la moglie avesse assassinato il precedente marito e che avrebbe fatto lo stesso con lui. Divorziarono nel 1965, e Dick si trasferì a San Francisco.
Dick assumeva anfetamina fin dai primi anni Cinquanta, sostanza che gli era stata prescritta dallo psichiatra che gli aveva diagnosticato una lieve forma di schizofrenia; l’anfetamina era usata per combattere gli stati depressivi di cui lo scrittore soffriva occasionalmente. Man mano Dick sviluppò una vera e propria tossicodipendenza dalla sostanza, che lo agevolava nella stesura delle sue opere. L’abuso di stimolanti raggiunse livelli allarmanti durante la seconda metà degli anni Sessanta, proprio mentre l’autore scriveva due dei suoi romanzi più importanti (Il cacciatore di androidi e Ubik). La rottura con la quarta moglie, Nancy Hackett (sposata dal 6 luglio 1966 al 1972), che lo abbandonò assieme alla figlia Isolde Freya (ora Isa Dick Hackett ) (15 marzo 1967), e la morte del suo carissimo amico Jim Pike, mandarono Dick alla deriva; lo scrittore si trovò a vivere in una casa di sbandati, e la situazione arrivò al punto critico quando, in sua assenza, la sua abitazione subì un’effrazione durante la quale sconosciuti forzarono il suo schedario blindato (Dick fece innumerevoli ipotesi sulla loro identità, arrivando a sospettare che fossero agenti dell’FBI; a tutt’oggi la questione non è stata chiarita). In seguito Dick partecipò a una conferenza sulla fantascienza a Vancouver, in Canada, e decise di stabilirvisi. Anche l’esperienza canadese fu però un fallimento, dovuto al consumo eccessivo di psicofarmaci e alla mancanza di denaro. Dick si fece ricoverare in una comunità di recupero pertossicodipendenti, la X-Kalay, un’esperienza breve che però lo aiutò chiudere con le anfetamine. Molti eventi e situazioni risalenti al suo percorso esistenziale di questo periodo ebbero un ruolo importante nel suo romanzo Un oscuro scrutare. Tornato in California, Dick si stabilì alla periferia di Los Angeles e nel 1972 riprese a scrivere, anche in seguito all’incontro con Leslie (Tess) Busby (18 aprile 1973-1977), la quinta moglie, dalla quale ebbe il terzo figlio, Christopher Kenneth (25 luglio 1973). Tra il febbraio e il marzo del 1974 Dick iniziò a sentire voci e avere visioni in sogno e da sveglio. Convinto di vivere un’esperienza mistica, Dick prese a scrivere l’Esegesi, una vasta raccolta di appunti a carattere teologico-filosofico a partire dai quali scrisse la celebre Trilogia di Valis, punto d’arrivo della sua esperienza letteraria.
Morì a Santa Ana, in California, per collasso cardiaco, nel 1982, proprio quando i diritti delle sue opere cominciavano a dargli per la prima volta una certa sicurezza economica, e mentre era in lavorazione il primo film basato su una delle sue storie: Blade Runner, di Ridley Scott, che Dick non poté vedere completato, anche se riuscì a visitarne il set. (Biografia tratta da Wikipedia)
Roger Joseph Zelazny (Euclid, 13 maggio 1937 – Santa Fe, 14 giugno 1995) è stato uno scrittore, autore di fantascienza e di fantasy statunitense. Ha vinto il premio Nebula per tre volte ed il premio Hugo sei volte, di cui due per i romanzi Signore della luce (Lord of Light, 1968) e Io, l’immortale (This Immortal, 1966).
Complimenti per la recensione davvero accurata! “Deus Irae” è uno di quei romanzi che leggo sempre e che considero geniali, nonostante abbia dei pesanti e palesi difetti, alcuni dei quali sottolineati anche in questa recensione. Lo scoglio delle prime decine di pagine infatti è davvero arduo, se poi si prosegue ci troviamo di fronte alcune delle pensate più sorprendenti persino per romanzi di questo tipo! La “follia” di Dick unita alla maggiore umanità e finezza di Zelazny porta a delle pagine intense e indimenticabili, come la scena dello spuntone della bomba o de “I Ratti”. <3 Bello ma per cultori. 🙂