Recensione: “Zero K” (Zero K, 2016) di Don Delillo

Articolo di Mirco Rosga Cucchidon_delilloIl padre di Jeffrey Lockhart, Ross, è un magnate della finanza sulla sessantina, con una moglie piú giovane, Artis Martineau, gravemente malata. Ross è uno dei finanziatori di Convergence, un’azienda tecnologica con una futuristica sede ultrasegreta nel deserto del Kazakistan. Attraverso le ricerche biomediche e le nuove tecnologie informatiche, a Convergence possono conservare i corpi e le coscienze fino al giorno in cui la medicina potrà guarire ogni malattia. Decidono cosí di affidarsi a Convergence: prima Artis poi lo stesso Ross, incapace di continuare a vivere senza l’amata compagna. Cosí Jeff si riunisce con il padre e la moglie per quello che sembra un addio – o forse un arrivederci. Jeff è turbato: non capisce se a Ross è stato fatto il lavaggio del cervello dagli uomini di Convergence (un gruppo che ha non poco in comune con una setta religiosa o un manipolo di body artist) oppure se è la decisione consapevole e radicale di un uomo tanto ricco e potente che ha deciso di possedere anche la morte. Ma questa è anche l’occasione per ristabilire un rapporto – ammesso che non sia troppo tardi – con il padre: una relazione incrinata anni prima, quando il genitore decise di lasciare la madre di Jeff. Zero K possiede la potenza solenne e ricapitolativa dei libri che sanciscono un’epoca e aprono al futuro. È come se con questo libro DeLillo ripercorresse, attraversandola, tutta la sua produzione: da Rumore bianco – le immagini dei disastri come unica, grande narrazione del nostro tempo – a Underworld – certe scene, di struggente dolcezza, di vita quotidiana nel Bronx -, dalla Stella di Ratner a L’uomo che cade, da Mao II a Cosmopolis. Ma, come mai prima, in Zero K DeLillo affronta direttamente quella «cosa» indefinibile che da sempre ossessiona la sua ricerca letteraria, quel mistero proteiforme che di volta in volta, semplificando, chiamiamo tempo, identità, linguaggio, memoria, morte. Zero K è una riflessione vertiginosa sullo scontro – che nella nostra epoca ha assunto nuovi, violentissimi sviluppi – tra scienza e religione per il controllo della vita umana. Una guerra il cui campo di battaglia è l’assoluto. Allo stesso tempo Zero K è un delicato concerto da camera, intimo e riflessivo, sui sentimenti di un figlio di fronte all’estrema decisione di un padre; sull’impossibile ma ineludibile necessità di dirsi addio. Nessun libro, finora, aveva saputo mantenere uno sguardo tanto lucido e allo stesso tempo visionario sul pianeta Terra ad altezza del ventunesimo secolo.

Autore: Don Delillo | Titolo: Zero K | Titolo originale: Zero K, 2016 | Editore: Supercoralli | pagine: 248 | Prezzo: € 19,00 | ISBN 9788806232528 | Traduzione di Federica Aceto

Per Zero K, pubblicato negli USA la primavera scorsa e in Italia l’undici ottobre, Don DeLillo ha scelto un tema a sfondo fantascientifico. Lo spunto iniziale in effetti è un luogo comune della narrativa d’anticipazione. Le tematiche possono ricordare alcune opere pubblicate da Robert Silverberg nei primi Anni Settanta, quando dedicò ad argomenti affini alcuni dei suoi testi più significativi. Ad ogni modo, ancora una volta un grande autore della narrativa ‘tradizionale’ si rifà a un soggetto tipicamente fantascientifico e lo fa senza porsi preclusioni. DeLillo in particolare aveva già sfiorato la science fiction con La stella di Ratner del 1976. Ha inoltre coltivato affinità coi ‘generi’ anche in altre occasioni, ad esempio col thriller in Libra, uno dei suoi capolavori.

41wFuiPv0GLIn merito alla crioconservazione, centro nevralgico della narrazione, Don DeLillo ne ha minimizzato l’importanza con Riccardo Staglianò di Repubblica: «La verità è che ho limitato le mie ricerche al minimo indispensabile. Non mi interessava capire come funzionava, in pratica, la cosa. Ciò che mi stava a cuore invece era raccontare la sfida immane contro l’appuntamento che ci attende tutti. Da questo punto di vista la crionica è una grande avventura».

Secondo il sito web ilpost.it: “I critici sono piuttosto divisi: c’è chi ritiene il libro uno dei migliori di DeLillo, chi invece non ha apprezzato che si sia avvicinato ai temi della fantascienza. (…) Un giudizio più duro su Zero K è quello dello scrittore Tony Tulathimutte sulla rivista New Republic: ha scritto che (…) i temi di Zero K sono già stati ampiamente trattati dai romanzi di fantascienza – e dalla serie animata di Matt Groening Futurama – e DeLillo non li rielabora, ma li cita soltanto. (…) Sul Guardian lo scrittore e poeta James Lasdun ha criticato in particolare la prima parte, dicendo che la descrizione della clinica Convergence non si adatta allo stile di DeLillo perché non è un luogo realistico ma fantascientifico”.

Come talvolta capita, queste dichiarazioni provenienti da critici che si presumono autorevoli dicono ben poco sul libro recensito, ma rivelano parecchio sui loro pregiudizi. Ci sarà sempre, d’altronde, chi avrà paura della fantasia. Non DeLillo, per fortuna. Sta di fatto che questi critici paiono accomunare temi fantascientifici a pochezza intellettuale e a mancanza di serietà: tutti difetti che, almeno sulla base degli estratti de ilpost.it, si potrebbero tranquillamente attribuire ai loro superficiali giudizi.

La fantascienza può piacere o meno, tuttavia il suo status di letteratura di idee credo sia innegabile. Tale status della SF è asseverato proprio dal sempre più massiccio impiego di suoi temi portanti da parte di testi ritenuti mainstream per avanzare critiche con maggiore incisività o marcare antinomie del nostro presente o dipingere diverse possibilità rispetto al qui e ora. In conclusione, per fare quello che la fantascienza, bene o male, fa da sempre: ricreare un mondo che non sia a immagine e somiglianza della realtà contingente, divertendo o facendo riflettere o entrambe le cose.

A volte gli stessi appassionati di fantascienza (e non solo) amano rinchiudersi nel ‘ghetto’ del genere. Inutile negare che si stia bene tra amici e tra chi condivide la propria passione. Purché non si dimentichi che esiste una sola letteratura, per quanto la si voglia dividere per generi. Le partizioni essenziali rimangono quelle tra buona e cattiva narrativa, significativa e irrilevante, di puro intrattenimento (il che non implica stupidità o banalità) e d’impegno (il che non la rende automaticamente encomiabile). Le distinzioni di genere, sempre utili per navigare nel mare magnum della narrativa, mantengono soprattutto valenza descrittiva.

La letteratura d’anticipazione si sta ‘dissolvendo’ in quella tradizionale, perciò, nulla di bizzarro in quegli autori mainstream che si dedichino a soggetti tipici della science fiction. Attrraverso varie vie la fantascienza ha informato di sé una bella parte della produzione più tradizionale, senza che il lettore ci abbia fatto granché caso. Comunque con esiti, nel complesso, positivi. In questo senso convengo con Alessandro Vietti: “forse perderemo lo scaffale dedicato cui eravamo tanto affezionati, ma ci troveremo di fronte a una situazione inedita, una condizione mai vista prima, ma ideale! Ci troveremo di fronte un orizzonte nuovo. Immenso”. E che, sono convinto, produrrà dei frutti gustosissimi.

Don DeLillo è uno dei più importanti scrittori in attività, basterebbe il solo Underworld a dimostrare la sua statura artistica. Tuttavia Zero K non è fra i suoi libri migliori. Sono in parecchi a pensarlo, come di può dedurre dal punteggio ottenuto dal romanzo sul social network Goodreads che al 20 ottobre risultava 3,31 su 5, basato su tremilacinquecento voti. Un campione non proprio adeguato, ma indicativo. Ad ogni modo le mancanze di Zero K non vanno certo imputate all’idea di fondo, che benché risaputa rimane indubbiamente stimolante. Riprova ne è il fatto che proprio lo spunto fantascientifico sia spesso menzionato come punto caratterizzante del romanzo.

La trattazione del soggetto della morte in prospettiva fantascientifica, anticipavo sopra, pare accomunare il newyorkese Don DeLillo al grande newyorkese della science fiction, Robert Silverberg. Naturalmente la direzione che prende Zero K nulla ha a che vedere con ciò che avrebbe potuto ricavarne Silverberg. Gli accadimenti in Zero K sono rarefatti, i dialoghi si presentano come un alternarsi di alienate dichiarazioni filosofeggianti, la realtà del romanzo è un’esile architettura composta per la gran parte di immagini astratte e pensieri. I personaggi sono figure ‘stilizzate’ (aggettivo che DeLillo ama adoperare, almeno in traduzione italiana), erratiche, talvolta affascinanti, talaltra irritanti. La prosa è algida, per certi versi davvero adeguata al tema trattato in Zero K. Il lessico è spaventevolmente vicino alla perfezione, nulla di nuovo per chi conosce Don DeLillo.

Zero KLo stesso autore a pagina 186-7 del libro pare descrivere la sua ossessiva attenzione per i vocaboli quando fa dire al protagonista Jeffrey Lockhart di essere “determinato a trovare il significato più o meno preciso di una parola, a estrarre altre parole da quella designata in modo da identificare il nucleo”. Ma le parole sono anche una sorta di autodifesa nei confronti dell’incomprensibilità, della datità del mondo. A pagina 200 il narratore racconta: “È questo che faccio per difendermi da certi spettacoli della natura. Penso alle parole”. La parola come chiave interpretativa, come tramite per affrontare la complessità del reale.

Di più, l’autore ha dichiarato: “Io non sono certo di quello che penso, finché non scrivo – devo scrivere per comprendere ciò che penso. La scrittura è un estremo atto di concentrazione”. E – aggiungerei – un processo di creazione del proprio mondo interiore.

Don DeLillo ha spiegato a Giuseppe Genna: “Per me scrivere è istintuale. Non è qualcosa a cui io penso coscientemente. Sono però certo che attraverso questa domanda si giunge a qualcosa che nel libro c’è. Quando scrivo, io ragiono in termini di parole e di organi di senso e di cosa c’è tra le parole e di cosa c’è tra le singole lettere e penso addirittura alla forma che esse hanno sulla pagina, dico visivamente. … Penso visivamente, penso tridimensionalmente”.

In effetti una peculiarità di Don DeLillo è il richiamo alle arti visive moderne. Anche in Zero K sono menzionati quadri astratti posseduti da Ross Lockhart, filmati proiettati lungo i corridoi di Convergence, individui stilizzati in posa in angoli di New York come attori oggetto di installazioni.

La prospettiva adottata da DeLillo è quella più aliena possibile, non sono il primo a sostenerlo. Il suo punto di vista può sembrare quello di un satellite o di qualche intelligenza artificiale parcheggiata sulla nostra stratosfera. E pare suggerirlo DeLillo stesso quando a pagina 19 di Zero K riporta un pensiero del protagonista: “Mi sono seduto sulla sedia, con gli occhi chiusi. Vedevo il complesso da un punto della stratosfera”.

La prosa dell’autore americano, qui forse più che in altre opere, evita descrizioni dettagliate per tentare invece di cogliere l’essenza delle cose. La scrittura dell’autore newyorkese è paragonabile non alla luce che si posa sugli oggetti e ne definisce volumi e contorni, quanto a una sorta di raggi x che attraversa gli oggetti per arrivare al fulcro primario delle cose.

L’impressione che suscita il testo è quella di una narrazione disarticolata, un grande quadro che l’autore ha composto in maniera quasi intuitiva, ma da cui ha scelto di estrapolare solo alcuni dettagli imprescindibili.

Stavolta però, a mio giudizio, ci sono pochi sprazzi della geniale acutezza altrove dimostrata da DeLillo. Certo non perché, come riporta repubblica.it, “la parabola creativa sembra essersi ripiegata, dalle 850 pagine e le centinaia di personaggi, tra cui Frank Sinatra e Edgar J. Hoover, del massimalista Underworld al minimalismo odierno della Convergenza, nei cui corridoi spogli si aggirano rare figure monacali e sulle cui pareti vanno in loop immagini sgranate di disastri. Poca trama, poche pagine, un tempo rallentato”. Il romanzo, sotto il profilo dello stile e dell’intreccio, è stato letteralmente prosciugato, ciononostante Zero K è tutt’altro che minimalista. DeLillo continua a porsi i grandi perché dell’umanità, i suoi personaggi, pur ripiegati in sé stessi, affrontano grandi dilemmi della vita e della Storia. La verità è che troppo spesso Zero K mi è sembrato artificioso. La riflessione, per quanto profonda e stilisticamente impareggiabile, non è particolarmente originale e al contempo non trova un corrispettivo all’altezza sul versante narrativo. Oppure, più probabilmente, nemmeno è stato cercato, laddove l’artificiosità è il portato di una stilizzazione estrema incompatibile con qualsiasi realismo.

Può darsi che invece, come ritiene Genna, Zero K, “distrugga l’autonoma sussistenza del linguaggio e della misurabilità, incrini la solidità dell’apparato mentale di cui si è orgogliosi essendo umani” e che, come tutti gli ultimi di Don DeLillo, sia uno di quei “libri controversi per via di interpretazioni contemporanee del tutto fuori fuoco”. Tuttavia rimango perplesso, attonito a tratti, al cospetto di un libro che, sempre secondo Genna, costituirebbe una terza via tra saggio e romanzo, mentre a me pare, più prosaicamente, un oggetto narrativo prosciugato fino all’astrazione.

Jeffrey Lockhart è uno pseudo protagonista – “un uomo senza forma”, lo ha definito lo stesso autore a Repubblica – sempre sull’orlo di diventare interessante, senza mai diventarlo davvero. La figura forte del padre Ross Lockhart rimane incombente sullo sfondo, più accennata che definita da quelle poche caratteristiche tipiche dell’homo oeconomicus che DeLillo gli attribuisce. Scrive ilpost.it che “tra le recensioni negative di Zero K c’è anche quella del critico A. O. Scott su GQ: lo ha definito «freddo come il suo titolo» perché i personaggi non sembrano provare vere emozioni”.

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Il personaggio che funge da perno di Zero K è Artis Martineau, la matrigna di Jeffrey che ha scelto la sospensione crionica prima della morte naturale imminente. Le poche pagine centrali – in ogni senso – del libro dedicate al monologo di Artis successivo al processo di crioconservazione sono il momento in cui DeLillo lascia la briglia più sciolta alla fantasia. La persona di Artis, o ciò che ne rimane, imbastisce un dialogo con se stessa, riflettendo, letteralmente, sul proprio atto di esistere. Pensarsi, essere coscienti di sé, ecco infine ciò che residua: “Quello che capisco viene dal nulla. Non so cosa capisco finché non lo dico”.

DeLillo ha dichiarato a Giuseppe Genna: “Non avevo programmato di scrivere questo pezzo centrale. Quando ho finito il libro, mi è capitato di avvertire la necessità di fornire al lettore, ma anche a me stesso, il senso di cosa significasse essere all’interno di quella

capsula crionica. … Ho scritto queste pagine molto velocemente, nel giro di due giorni. Il libro era allora terminato. Quello che ho tentato di fare era rendere il linguaggio mentale di Artis, quando si trova in sospensione, differente dal suo linguaggio quando era vivente. L’ho fatto intrecciando risposte in prima e in terza persona”.

Vale la pena leggere Zero K per osservare uno dei più grandi scrittori di oggi misurarsi senza timori e pregiudizi con un tema enorme, ma che la critica più approssimativa è capace di giudicare inappropriato per un autore ‘serio’. L’esito può destare ammirazione o non convincere, o disorientare, ma certo non lascia indifferenti.

Mirco Rosga Cucchi

Don DelilloL’AUTORE

Don DeLillo, all’anagrafe Donald Richard DeLillo (New York, 20 novembre 1936), è uno scrittore, saggista, drammaturgo e sceneggiatore statunitense. DeLillo è nato e cresciuto nel Bronx, New York, da genitori italiani emigrati subito dopo la Grande guerra da Montagano, in Molise. Frequenta scuole cattoliche fino agli studi universitari[1]. Finiti gli studi, inizia a lavorare come pubblicitario e ad interessarsi di arte e musica, particolarmente al jazz e alla scrittura. Nel 1971 pubblica il suo primo romanzo, Americana, tradotto in italiano solo nel 2000. Nel 1972 pubblica End Zone, tradotto in italiano nel 2014, e l’anno successivo Great Jones Street(tradotto in italiano nel 1997), che narra di un artista rock ritiratosi a vivere in un ambiente spoglio. Alla fine degli anni settanta intraprende un lungo viaggio formativo in Medio Oriente e in India; successivamente si trasferisce in Grecia, dove vive per tre anni e scrive il suo ottavo romanzo, I nomi, che ha un buon successo come thriller psicologico. Torna quindi negli Stati Uniti dove scrive Rumore bianco (White Noise) con cui, nel 1985, vince il National Book Award. Viene ascritto al cosiddetto postmodernismo insieme a Thomas Pynchon, Philip Roth, David Foster Wallace, Jonathan Franzen e Paul Auster. Osservatore acuto della società americana nel passaggio di millennio e del suo immaginario collettivo, descrive la realtà che lo circonda con una scrittura in cui racconta la società attraverso i media, la religiosità, i riti profani e le liturgie della politica comprese di intrighi tesi alla conquista del potere.