Recensione: “Morire dentro” (Dying Inside, 1972) di Robert Silverberg

Silvia TrevesMorire DentroManhattan, anni Settanta. Il quarantenne David Selig conduce apparentemente una vita piatta: non ha un lavoro né relazioni significative. In realtà fin dall’infanzia David ha il dono e la condanna di saper leggere nei pensieri della gente e da anni impiega il suo potere per aiutare gli studenti dell’università, scrivendo per loro tesine personalizzate in base allo stile e al grado di intelligenza di ciascuno. Questa straordinaria capacità è tutto ciò che David possiede; per questo motivo, quando si accorge che la sta perdendo è come se iniziasse a morire. Si aggrappa allora ai ricordi più intensi della sua vita: i rapporti umani e lavorativi con gli studenti, la relazione con la sorella adottiva Judith, morbosa fin quasi ai limiti dell’incesto, l’incontro con Tom, un altro essere telepatico che però usa spregiudicatamente il proprio potere per fare carriera. In un susseguirsi di flashback e di storie, emergono la forza e la fragilità di David, l’ossessiva maledizione legata alla sua telepatia, la sua visione originale del mondo.

Titolo: Morire dentro | Titolo originale: Dying Inside (1972) | Autore: Robert Silverberg | Collana: Le Strade | Edizione: Fazi | Anno di pubblicazione: 2007 | Pagine: 287 | Prezzo: 16,50 | Copertina di Maurizio Ceccato | ISBN: 9788881128174 | Traduzione di Stefano Tummolini

Robert Silverberg, newyorkese classe 1935 con alle spalle approfonditi studi umanistici e una laurea in letteratura comparata, è probabilmente uno degli autori più rappresentativi della fantascienza anglofona degli anni Settanta. Sicuramente anche uno dei più controversi, letto e apprezzato dalla generazione che aveva vent’anni nell’ultimo periodo della guerra del Vietnam e della rivoluzione nei campus universitari, poco famigliare ai giovani appassionati di fantascienza di oggi, un po’ snobbato da chi non riesce a dimenticare i suoi primi romanzi, troppi e troppo easy, la disinvoltura di allora nel passare dalla fantascienza al racconto erotico, al romanzetto avventuroso, o da chi non ha amato i suoi fantasy degli anni Ottanta, o la sperimentazione francamente noiosa di testi come Il Figlio dell’Uomo (Son of Man, 1971).
In realtà, come nell’opera di Picasso, anche in quella di Silverberg si riconoscono alcuni periodi: gli anni Sessanta della produzione seriale, buona abbastanza per essere venduta e niente di più, quella intensa e generosa degli anni Settanta, anni artisticamente felici nei quali l’autore esplora e integra nelle sue opere l’amore per la buona scrittura e i temi che gli sono più affini: solitudine, isolamento, difficoltà di comunicazione, la rappresentazione di un’umanità sospesa tra crudeltà e bisogno di trascendenza. Sono gli anni delle opere migliori, che sfumeranno dignitosamente, nel ventennio Ottanta e Novanta, in progetti narrativi complessi e riusciti, ma non più così sofferti.
Romanzo di formazione a ritroso pubblicato nel 1972, Morire dentro, riproposto in una nuova traduzione1 da Fazi, è la storia costruita per flashback dello spegnersi di un talento ingovernabile che ha condannato il protagonista all’isolamento e gli ha donato attimi di gioia sfolgorante. Telepate e uomo qualunque, umano e meschino come ognuno di noi, David Selig, quarantenne single e privo di affetti, ha fallito nella professione universitaria e nella vita affettiva, schiacciato dalla capacità innata di leggere i pensieri altrui. Fin dall’infanzia David ha sperimentato nitidamente le debolezze e l’ipocrisia dei genitori, poi il conformismo degli insegnanti, l’astio della sorella, il timore e il disgusto delle amanti.

Dying insideIl suo talento non gli ha impedito di vivere nel mondo, di riflettere, fino al disgusto, sulle scelte politiche suo paese, sull’ipocrisia e sulle menzogne del potere:

Ve lo ricordate un po’ il ‘68? I bambini morivano di fame in un posto chiamato Biafra, di cui sicuramente non vi ricordate, mentre i russi spostavano truppe in Cecoslovacchia per offrire un’ennesima dimostrazione della fratellanza socialista. Per promuovere la pace e la democrazia in un posto chiamato Vietnam, di cui vi ricordate ma preferireste di no, scaricavamo napalm su qualsiasi cosa comparisse all’orizzonte e un ufficiale di nome William Calley aveva da poco organizzato l’eliminazione di cento e passa vecchi, donne e bambini – tutti estremamente sinistri e pericolosi – della cittadina di My Lai, solo che noi ancora non ne sapevamo niente.
Né gli ha impedito di sognare come tanti coetanei un mondo migliore e di lottare per realizzarlo, di affrontare le cariche della polizia alla Columbia Università, nell’estate del Sessantotto. Ma David è un telepate e non può fare a meno di conoscere gli altri umani troppo in profondità, per farsi illusioni:

[…] vennero sfondati i crani di molte matricole e nelle fogne scorsero svariati litri di sangue di primissima scelta. […] Fu allora che capii che non c’era speranza per il genere umano se perfino i migliori di noi andavano fuori di testa per la causa dell’amore, della pace e dell’uguaglianza tra gli esseri umani. In quelle notti oscure lessi molte menti e non vi trovai che deliri e follia.

Ormai giunto alla mezz’età, ridotto a campare scrivendo tesine di letteratura che vende per pochi dollari agli studenti, imprigionato come in un bozzolo nei molteplici riflessi delle menti che lo circondano David è rimasto una larva, può conoscere ogni pensiero di chi ha di fronte ma è troppo sovraesposto per sviluppare l’empatia che consente a noi umani di sopportarci a vicenda, di comprenderci, di amarci. Di perdonarci.

Uno come me, permeabile ai più intimi pensieri di chiunque, è destinato a conoscere ben poco amore. Non può dare che poco, perché non si fida molto degli altri esseri umani; conosce troppi dei loro piccoli, sporchi segreti e questo uccide i suoi sentimenti. Incapace di dare, non può ricevere. La sua anima, indurita dall’isolamento e dalla spietatezza, diventa inaccessibile e così, per gli altri, non è facile amarlo.

Poi la svolta: le voci interiori degli altri cominciano a diventare più opache, il loro tono peculiare si confonde e David vive attimo per attimo l’affievolimento della sua unica grandezza: il talento che lo ha rovinato.

buk00064Per chi ama la fantascienza Morire dentro è una sintesi felice dei pregi di questo genere di letteratura, ugualmente attento al mondo fuori di noi e a quello interiore, ai nostri due modi di essere, quello pubblico di cittadini e quello privato, di esseri umani dolenti che devono conservare la speranza.
Ma, come cronaca in diretta di un’ordinaria tragedia, Morire dentro ha molto da dire, da sussurrare, a ogni tipo di lettore, molto sulla realtà di oggi e sul nostro paese, su un mondo dove perdiamo giorno per giorno la capacità di sperare, dove un inarrestabile e banale chiacchiericcio ci rende sordi ai nostri stessi pensieri, un mondo dove sempre più spesso gli altri pensano e parlano in maniera diversa, difficile da ascoltare e più ancora da comprendere. E dove, tuttavia, imparare ad ascoltare, a tollerare, a sopportare voci incomprensibili è di fondamentale importanza.
La complessa situazione del nostro mondo ha radici e spiegazioni storiche, politiche, economiche, culturali, ma sviscerarle è compito degli autori di saggi, non degli scrittori di romanzi, a loro spetta, invece, il compito di essere «contro», di puntare il dito sui nostri malesseri, di seminare dubbi su ciò che è accettabile e ciò che non dovremmo tollerare. Con Morire dentro Silverberg assolve a questo ruolo riuscendo anche, – e gliene sono grata – a lasciarci un piccolo varco, una fessura dalla quale scorgere un paesaggio migliore e più silenzioso:

Ora c’è un gran silenzio.Il mondo è bianco fuori e grigio dentro. Io lo accetto. D’ora in poi la vita sarà più tranquilla. Il silenzio diventerà la mia lingua madre. Ci saranno scoperte e rivelazioni, ma senza turbamenti. Forse rivedrò anche qualche colore. Col tempo.Forse.Vivendo peniamo, morendo, viviamo. Lo terrò a mente.

Attenzione: questa non è una recensione neutrale: ho letto Morire dentro in gioventù; da allora, insieme ad alcuni romanzi di Dick, a un racconto lungo di Delany e a opere di vari autori, mi ha accompagnato nella mia vita di lettore e di autore. Negli anni successivi l’ho sempre avuto presente e so che è scivolato dentro di me fino a costituire quel terreno, diverso per ognuno di noi, dal quale nascono fantasie e racconti. Rileggerlo a distanza di così tanto tempo è stato sorprendente: pagina dopo pagina era all’altezza dei miei ricordi, ne rammentavo ogni passo e insieme lo riscoprivo. Mi percepivo cambiata, ma non tanto da non amarlo ancora. E abbastanza diversa da comprenderlo meglio e in maniera differente.
Immagino non si possa chiedere di più a un libro.

1 Da segnalare la traduzione di Stefano Tummolini, sensibile e più moderna di quella precedente di Rino Ferri per le edizioni Armenia.

Silvia Treves

Robert SilverbergL’AUTORE

Robert Silverberg, (New York, 15 gennaio 1935) è uno scrittore di fantascienza, curatore editoriale e sceneggiatore statunitense, ripetutamente vincitore, tra gli altri riconoscimenti, dei premi Hugo e Nebula. Silverberg fu sin dall’infanzia un vorace lettore e cominciò a scrivere per riviste fantascientifiche dall’adolescenza. Studiò alla Columbia University, continuando a scrivere fantascienza. Il primo romanzo pubblicato, nel 1955, fu un libro per ragazzi, La pattuglia dello spazio (Revolt on Alpha C). L’anno seguente vinse il suo primo premio Hugo, in qualità di “migliore scrittore esordiente” e facendosi così conoscere come una delle giovani promesse della letteratura fantascientifica. Per sua ammissione, nei quattro anni successivi scrisse un milione di parole all’anno per il mercato fantascientifico. Nel 1959 quello stesso mercato crollò e Silverberg si riciclò in altri campi, dai racconti storici alla pornografia soft. Nella metà degli anni sessanta gli scrittori di fantascienza cominciarono ad avere ambizioni letterarie maggiori. Frederik Pohl, editore di tre riviste fantascientifiche, offrì carta bianca a Silverberg, purché avesse scritto per lui. Così l’autore tornò alla fantascienza, approfondendo lo studio del suo primo amore letterario. I libri che scrisse in questo periodo sono considerati dai critici lontani anni luce dai suoi primi lavori. Già da Violare il cielo (To Open the Sky, 1967), una serie di racconti in cui una nuovareligione aiuta le persone a raggiungere le stelle, la differenza fu sostanziale. Mutazione (Downward to the Earth, 1970) fu probabilmente il primo libro fantascientifico post coloniale, in cui si sentiva l’eco di Joseph Conrad. Fra gli altri lavori del periodo non possiamo dimenticare Vertice di immortali (To Live Again, 1969), in cui le personalità dei morti possono essere trasferite;Monade 116 (The World Inside, 1971), uno sguardo su un futuro sovraffollato; e Morire dentro (Dying Inside, 1972), un racconto su di un telepate che perde i suoi poteri. (Wikipedia)