Recensione: LA CASA FUTURA DEL DIO VIVENTE (Future Home of the Living God, 2017) di Louise Erdrich

Di Giovanna Repetto

8306818_3006457Il mondo come lo conosciamo sta finendo. L’evoluzione ha invertito marcia e ne risentono tutti gli esseri viventi sulla Terra. La scienza non riesce a opporsi e i nuovi nati sembrano appartenere a specie umane arcaiche. Cedar, la giovane narratrice e protagonista, di origine ojibwe ma adottata alla nascita da una coppia di bianchi “liberal” e generosa, non è solo turbata e confusa come il resto degli americani intorno a lei, ma è ancora più profondamente preoccupata e inquieta perché porta il mutamento dentro di sé, nella sua pancia: infatti è incinta, al quarto mese. L’atmosfera che si respira è pesante, presa dal panico la società inizia a disgregarsi. Si parla in giro di leggi marziali, del congresso che sequestra le donne gravide. Di un registro e di ricompense per chi le consegna. Quando cambiano i nomi delle strade del suo quartiere in versetti della Bibbia, Cedar capisce che deve fuggire e nascondersi.

Titolo: La casa futura del Dio vivente | Titolo originale: Future Home of the Living God, 2017 | Autore: Louise Erdrich | Traduzione di Vincenzo Mantovani | Editore: Feltrinelli | Pag. 301 | Prezzo di copertina: Euro 18,00 |EAN: 9788807032738

Ecco un romanzo che a buon diritto si può definire di fantascienza, ma che è destinato a deludere molti appassionati del genere. Non perché non valga: anzi la Erdrich è un’ottima autrice e la sua scrittura è splendida. Quello che però si percepisce è che il suo interesse è centrato su ben altro che non il tema fantascientifico. Questo non sarebbe un male in sé. Spesso gli scrittori si servono del genere per dire la loro, anzi per parlare ancor più liberamente in un’ambientazione creata ad hoc. Il problema, nel caso della Erdrich, è che non tutti gli spunti sono sfruttati al meglio. I temi fantascientifici sono due, e lo spazio maggiore viene dedicato a quello distopico: una società in cui le donne incinte sono monitorate ossessivamente, invitate a raccolta e, in caso di renitenza, catturate per farle partorire sotto stretto controllo. L’altro tema consiste in un’idea piuttosto originale, che però viene sviluppata pochissimo e quasi buttata via. Si tratta di un fenomeno inspiegabile, per cui da un certo momento in poi sulla Terra l’evoluzione comincia a procedere in senso inverso, dalle forme più evolute a quelle più arcaiche: le piante si involvono verso specie sempre più selvatiche e i volatili si avviano a riprendere le sembianze dei rettili. Il processo non risparmia l’uomo, che rischia di venir presto soppiantato da forme di ominidi sempre più primitivi man mano che si verificano nuove nascite. È questo l’evento che scatena il panico innescando un crescendo di fanatismo religioso e di espedienti medici per recuperare i bambini eventualmente immuni dal fenomeno e tentare di produrne altri per mezzo dell’inseminazione artificiale. Una lotta contro il tempo di cui le donne sono le prime vittime. Da questo spunto parte una sostanziosa riflessione sulla maternità approfondita in tutte le implicazioni psicologiche e sociali: il rapporto della donna con il nascituro, con la propria famiglia e con il resto del mondo. Soprattutto è messo drammaticamente in evidenza il contrasto fra il diritto delle donne alla libera scelta e i vincoli (legali, religiosi o culturali) imposti in modo più o meno pesante dai contesti sociali in cui esse vivono, fino ai casi limite in cui il corpo della donna è ridotto alla condizione di ostaggio. Nel portare alle estreme conseguenze la sua parabola, l’autrice gioca pesante, dando avvio a un incubo claustrofobico in cui la protagonista si sente intrappolata dall’inizio alla fine. Sempre nascosta, spiata, braccata, sempre in fuga e sempre in dubbio sulla possibilità di fidarsi di qualcuno. La storia è condotta in modo da mantenere alta la tensione e costante il coinvolgimento del lettore.

Contemporaneamente viene esplorata anche l’altra faccia della maternità, quella gioiosa e messianica, che si affida con fatalismo alla potenza creatrice della natura, che sfida tutto e tutti intonando un inno alla vita. Non a caso parlo di un aspetto messianico, perché all’elemento naturalistico si intreccia quello religioso, con frequenti riferimenti al mistero dell’Incarnazione. Qui, mi si perdoni la pignoleria, devo rilevare un grossolano errore in materia teologica (ingiustificato dal momento che la protagonista è descritta come cattolica e redattrice di una rivista che tratta temi spirituali): è la confusione fra il dogma dell’Immacolata Concezione e il concepimento verginale di Maria. A chi ne avesse voglia, e fosse in grado di leggere in lingua originale, demando il compito di scoprire se l’errore sia da ascrivere all’autrice o al traduttore.

Non si creda, a questo punto, che i temi siano esauriti, perché c’è un altro bel po’ di carne al fuoco. Soprattutto ricorre il tema preferito della Erdrich, che personalmente discende per parte di madre dagli indiani Ojibwe, e nei suoi romanzi ama dedicare ampio spazio alla vita nelle riserve e ai confronti fra le diverse culture (si veda il delizioso La casa tonda, ambientato in una riserva indiana, dove il genere di riferimento è il giallo). Qui poi il confronto non è solo fra due culture, ma fra due stili familiari, perché la protagonista è una ragazza ojibwe, adottata alla nascita da una coppia di bianchi “liberal”, che in occasione della gravidanza decide di fare conoscenza con la sua famiglia biologica.

L’autrice governa con grande maestria il complesso intreccio dei temi, dando vita a un romanzo potente e imperfetto. Imperfetto, sì, perché non tutti i passaggi della travagliata storia sono convincenti, e la sua capacità di penetrazione psicologica, peraltro straordinaria, si fa talvolta sfuggire l’occasione di approfondire qualche dettaglio oscuro nelle azioni dei personaggi. Piuttosto debole, inoltre, è l’espediente di scrivere l’intero romanzo in forma di lettera rivolta dalla protagonista al figlio non ancora nato. Sarebbe perfetto se si trattasse di un dialogo interiore, ma diventa risibile quando l’autrice vuol farci credere che la protagonista racconti le proprie disavventure su un taccuino che porta sempre con sé sfidando fughe, attacchi, perquisizioni, e traversie di ogni tipo, e soprattutto mentre è soggetta a una tale necessità di segretezza da indurla a inghiottire dei bigliettini dopo aver letto il messaggio. Insomma, da un lato usa precauzioni inaudite per non farsi scoprire, e dall’altro scrive tranquillamente il suo diario con nomi e cognomi dei complici e descrizioni dettagliate dei piani segreti.

La pagina dei ringraziamenti finali ci svela che questo libro è stato concepito molti anni prima della sua uscita e che prima di vedere la luce ha subito nel tempo interruzioni e modifiche. Forse è stata questa lunga odissea, questa riluttanza a finire, che ha lasciato un’impronta caotica, come di un magma che non abbia trovato la sua forma definitiva. E non escludo che proprio da questo derivi il suo potere coinvolgente, per il lettore che accetti di abbandonarsi alle emozioni. In definitiva, per quanto abbondino gli aspetti filosofici, questo è un romanzo scritto con la pancia. Ed essendo la storia di una gestazione, forse non c’era modalità più appropriata.

Giovanna Repetto