Recensione: “Il pianeta nell’occhio del tempo” (Planet in the Eye of Time, 1968) di Brian Earnshaw

Fabio CartacoverAgli ultimi confini della Galassia, in un sistema instabile che a volte c’è e a volte non c’è, si nasconde, dietro uno schermo fluttuante di luce magnetica, il Pianeta nell’Occhio del Tempo. Qui è nascosta la prima ed unica “macchina del Tempo”. Una strana, fantastica gara si svolge per appropriarsi di questo congegno senza prezzo, che permetterà di raggiungere la certezza sulle verità supreme dell’umanità. Azione e umorismo, droga, politica, religione, erotismo entrano in gioco nello svolgimento e nel significato di questa stupenda “caccia al tesoro”.

Titolo: Il pianeta nell’occhio del tempo | Titolo originale: Planet in the Eye of Time, 1968 | Autore: Brian Earnshaw | Per tutte le edizioni del romanzo clicca QUI | Edizione italiana: 1970 Cosmo. Collana di Fantascienza 2, Editrice Nord

Il romanzo in questione è una singolare e spiritosa avventura spaziale, ambientata più o meno nel XXVIII secolo, quando l’intera galassia, popolata da simpatici ma innocui alieni, è sotto il controllo dell’uomo come specie e di due, quantomeno singolari entità politiche, ovvero una Confederazione Elvetica (avete capito proprio bene, una svizzera galattica!) votata all’esaltazione dell’utilitarismo, della fisicità romantica e frugale e animata da una ridente visione del futuro; e un subdolo, reazionario stato di Israele spaziale, contrappunto al primo in quanto vincolato a un becero materialismo, a uno spiritualismo oscurantista e, ovviamente, a tradizioni religiose, rese insensate dai notevoli progressi tecnologici raggiunti dalla scienza. Come ad esempio la capacità di viaggiare nel tempo.

Ma andiamo con ordine.

Il romanzo è scritto in prima persona, un diario di eventi alternato, spesso in maniera serrata, tra i punti di vista dei due protagonisti, amici e istruttori elvetici; due narrazioni alla fine pressoché indistinguibile per una totale assenza di caratterizzazione del personaggio narrante, ma che quantomeno risulta leggera e gradevole per via del registro confidenziale e scanzonato, che ricorda in parte quello del famigerato “Guida galattica per autostoppisti” di cui la narrazione assume da subito lo stesso tono semiserio. Utilizzando la prima persona così confezionata, l’autore la sfanga con facilità evitando il rischio di appesantire la storia con descrizioni e spiegazioni, concedendoci qualche rapida notizia qua e là; e in che modo! Ad esempio nella presentazione iniziale dell’alieno e dei costumi del college spaziale, il tutto descritto per mezzo di considerazioni personali dal tono quasi banale.

Il tutto ovviamente aiuta a farsi l’impressione di una civiltà – quella elvetico-galattica – molto ma molto superficiale, tronfia e ipocrita. Un sistema che esalta la fisicità dei suoi missionari dell’educazione fisica e diffida della riflessione, considerata pratica malsana e “pessimista”.

Nella Confederazione l’università volge infatti ad un’istruzione principalmente atletica, secondo i dettami di un leggendario e veneratissimo mentore del fitness come stile di vita, il training come strumento principe di educazione, socializzazione e controllo (manipolazione?) sociale; yoga e psicologia, in questo contesto, probabilmente in quanto discipline di avanguardia sul finire degli anni ’60 quando il libro è stato scritto, hanno il loro posto d’onore tra le strane pratiche pedagogiche portate avanti da questa legione di surfisti.

Una falange uniforme di beoti balestrati, tutti dotati di un corpo talmente perfetto da risultare indistinguibili l’uno dall’altro qualora indossanti una semplice maschera.

Una moltitudine ridicolmente omologata, nelle intenzioni dell’autore, ma che risulta ridicola proprio nella polemica che si vorrebbe sottintesa in questa improbabile, fiacca caricatura di non si capisce bene… cosa. Una pletora di imbecilli che non fa ridere nessuno, né riflettere su nulla, che pontifica sulla rettitudine dell’etica astro-svizzera sfoggiando addominali scolpiti e slippini scintillanti di pailettes. In questa confusione “semantica” persino la musica finisce per essere usata come mezzo per ammansire gli esecrabili istinti dell’uomo all’introspezione.

Semplicemente senza senso. Ritengo che non basti giocare al rialzo dell’improbabile fino all’assurdo per ottenere una buona narrativa fantastica, in grado di provocare la dovuta meraviglia del lettore.

“Guarite le menti ferite con la sanità corporale. Donate a tutta la specie umana la possibilità dell’AUTODOMINIO. Mostrate loro in tenera età che non c’è Dio all’infuori di noi: che l’uomo deve saettare come dardo infallibile alla padronanza dell’UNIVERSO!”

Futurismo positivista, salutista, ateo e gnostico? Roba da matti… dai.

Il tutto nella cornice di un college modellato sul cliché dell’università americana stile Animal House, ma con sede a Malibù, scolpita nelle scogliere (oltre che negli addominali degli studenti e dei professori smutandati) e animata da nient’altro che gli scherzi.

Perché di questo parliamo, vero? Uno scherzo… colorato da scazzottate e battute in chiaro stile televisivo, da telefilm d’annata, piacevole e prevedibile, dove gli eroi inseguono i cattivi facendo i surfisti sulle onde del tempo lasciate dalla scia spazio-temporale delle grandi astronavi. Una spiritosaggine che mi ha strappato un sorriso ricordandomi il mood di Ritorno al Futuro.

n50052Un fumettone colorato e fin troppo ironico, impregnato di superficialità e ingenuità preconfezionata (o almeno lo spero). Una narrazione senza pretese, leggera ma non così brillante, come ad esempio, e nuovamente, avviene con l’irriverente Guida Galattica.

Con lo stesso animo ho cercato di leggere il romanzo senza accanirmi troppo sull’ambientazione oggettivamente ridicola, cercando di cogliere i sottintesi, contestualizzandoli per quanto mi è stato possibile al periodo storico e politico della stesura (fa quasi tenerezza il mito degli invincibili servizi segreti israeliani, il Mossad, perlomeno prima della figuraccia nella guerra del kippur).

Ho atteso inutilmente di trovare in ogni pagina, tra tanta supposta ironia, quelle perle di serietà sci-fi che hanno reso famosa, di nuovo, la Guida. Ma se nella Guida tra una battuta e un luogo comune vi capita di inciampare in sublimi e sottili satire di costumi istituzionali galattici, in motori ad improbabilità e creature pluridimensionali, ebbene qui, nello sperduto del Pianeta nell’Occhio del Tempo, non troverete proprio un bel niente. Beh proprio niente niente… no.

Ogni tanto, ad onor del vero, spunta una piccola perla, uno spunto per una riflessione VERA. Un gioiellino che va ammirato e apprezzato proprio per la rarità che lo contraddistingue, perso in un mare di parole…

” Io sono un democratico, e la democrazia consiste nel sapere che si sbaglia continuamente ma che vaie lo stesso la pena di provare.”

Amen. Dopo frasi come queste ho potuto anche digerire la suddivisione della Galassia in quattro cantoni svizzero/ebrei. Rianimato ho proseguito nella ricerca di una vena polemica e sarcastica in questa insolita geopolitica galattica, un traslato, una specie di allegoria. Mi perdonerete, non l’ho trovata.

Perché gli svizzeri? Cosa diavolo c’entrano nello spazio gli svizzeri: perché loro? Nel ‘70 forse erano resi odiosi dal becero capitalismo che nelle loro banche rifugiata i frutti del vorace neocolonialismo, mentre la stessa nazione di banchieri ipocriti e vili si dichiarava neutrale nello scontro sacro tra ideologie durante la Guerra Fredda. Probabilmente la galassia confederata elvetica è una specie di distopia. Uno scenario non tanto ironico e metaforico, ma semplicemente apocalittico.

Non c’è altra spiegazione, temo. La nazione che ha perlopiù contribuito alla storia del mondo col cioccolato e gli orologi, oltre alle banche. Perché domina la galassia se non come monito e critica al vorace capitalismo nell’immaginario collettivo degli anni ’70? Redimetevi, o nobili figli, altrimenti finiremo tutti così…

Nonostante l’anatema sottinteso nella ridente ambientazione, il romanzo prosegue tra le interiezioni e le onomatopee (e clang! il suo bastone contro il mio; e clang! il mio bastone sul suo. Se questa è azione? Ma per carità…). Non mancano sciocchi e infantili riferimenti sessuali, che dovrebbero descrivere la disinibizione della società futura e che invece al limite sortiscono l’effetto di qualche scritta oscena sulle pareti di un ascensore di servizio. Strappano al massimo un risolto altrettanto stupido. Il tutto confezionato con prevedibili giochetti narrativi da sceneggiatura di quart’ordine.

Bah, la narrativa anglosassone, tutta muscoli, trama e colpi di scena.

Non c’è un particolare, una sola parola che non sia innestata nella fabula. Tutto quanto è detto lo è in vista dello svolgimento della trama. Nessuna riflessione, nessuna digressione fine a se stessa, tanto per stimolare – che ne so? – il senso estetico del lettore. Golden Age of sci-fi… sense of Wonder? Ma dove? Un misero fumettone per adolescenti, anzi per video-consumatori che sanno bene cosa succederà nel prossimo colpo di scena e continuano a leggere solo per il piacere di attendere l’avveramento della profezia, pel gusto di considerarsi magari esperti del genere, padroni e profeti della noia prodotta da trame del genere.

Via dall’università nel remoto sistema di Harvard-Malibù, partiamo con l’autore e la frotta di personaggi cliché nel Gran Tour pedagogico della galassia, dove i pianeti sembrano distinguersi più per le loro caricaturali società che per altro, alla ricerca dell’isola, ops pardon, del pianeta del tesoro. Di tanto in tanto ci scappa ancora qualche chicca:

“Cosi viveva tutta l’Inghilterra prima che l’assorbissimo nella Confederazione, alla fine del ventunesimo secolo!”

“Da allora, Herr Loid, non hanno più tentato di uscire dalla Confederazione?”

“Molte grandi nazioni del passato hanno barattato i loro valori spirituali per un piatto di materialistica minestra.”

Un imprevisto impulso alla Brexit ante litteram. Ah! Che geniaccio preveggente.

Man mano che la caccia al tesoro prosegue, i due protagonisti del dittico narrativo cominciano a distinguersi un poco, calandosi l’uno nel panni dell’uomo d’azione e l’altro in quelli dell’uomo riflessivo e spirituale. Una dicotomia straclassica, quasi alla Dostoevskij ne Le memorie dal sottosuolo. Un piccolo manifesto il cui sottinteso si slancia contro l’azione che travalica sempre la riflessione, la visibilità e l’esteriorità asciutta pregna di ambigua semantica, ovvero l’arte che mostra ma non spiega (probabilmente, in ultima analisi, perché incapace di farlo) contro l’introspezione e la riflessione, il cinema contro la letteratura. Con chi schierarsi?

“Avrei dovuto dirglielo; ma è impulsivo in un modo impossibile. Se appena avessi aperto bocca sul contenuto di quell’arca di cemento, avrebbe riso a crepapelle. E avrebbe certo fatto qualcosa.”

Perle di saggezza che fanno riflettere fino alla commozione. Ancora una, please…

“Aver modo di incontrare il suo Cristo a faccia a faccia, in carne ed ossa. Perciò direi che suo padre, più che un credente, fosse uno scienziato.”

Il conflitto tra religione e scienza, tra prova oggettiva e fede, ovvero tutto il dibattito epistemologico dell’evo moderno occidentale riassunto in un pugno di parole. Genio o fortuna?

Come ne I predatori dell’Arca Perduta si parla di temi religiosi con leggerezza e meraviglia, come fosse una magia inspiegabile, un tesoro; ma alla fine viene sempre la morale, la giustezza della vera fede e bla bla bla. E il retaggio paterno, pure questo ci tocca sorbirci; poiché il viaggio nel tempo organizzato dal padre del protagonista (quello ovviamente spirituale tra i due)

“[…] forse era concepito come un banco di prova per la mia fede; ma al diavolo la fede! Io volevo costruire la mia vita sulla certezza.”

Vi risparmio ulteriori, impietose considerazioni sul finale, ovvero sul viaggio nel tempo per andare a conoscere Gesù in persona. Se proprio volete fare voi un viaggio del genere, come lettori, allora andatevi a leggere un classico immortale come “Il maestro e Margherita” di Bulgakov e lasciate perdere questo stupido, stupido libro.

Ne avrete guadagnato in tempo.

Fabio Carta

Brian EarnshawL’AUTORE

Brian Earnshaw (26 dicembre 1929) è un autore britannico, noto per la sua serie Dragonfall 5, illustrata da Simon Stern. Earnshaw è nato a Wrexham, nel Galles, e ha frequentato il St John College di Cambridge, dove ha studiato storia. Ha poi insegnato per diversi anni in diverse scuole secondarie del Regno Unito prima di diventare docente di letteratura inglese al St Paul College. Dopo il ritiro, si è trasferito a Bristol, dove tuttora vive, e ha lavorato con Timothy Mowl su una serie di libri sulla storia dell’architettura e il giardino all’inglese. Grande appassionato di botanica e di viaggi, ha girato l’Europa per studiare i fiori, l’architettura, i giardini e la storia.