Chi mi conosce sa quanto sia sviscerato il mio amore per i Beatles. Quando io venga ancora assalito dalla tristezza se appena mi capita di pensare al loro prematuro scioglimento. Eccetera. Sicché, quando nel 1983 un amico di Trieste, Sergio Comida, mi chiese un racconto per un’antologia di storie fantastiche dedicate al rock che stava allestendo, produssi Quando avrò 64 anni: la mia personale versione di quel che potrebbe essere (ma non glielo auguro di certo) il futuro di Paul McCartney nell’anno che i Beatles immaginavano in When I’m 64. Nonostante il pessimismo della storia, in una cosa sono stato troppo ottimista: Linda McCartney è morta, e a sessantaquattro anni non arriverà mai. Mi spiace molto. Mi era simpatica.
Il giorno prima James è andato a prenderli con la macchina delle gradi occasioni, la Cadillac elettrica color rosso rubino. Che senz’altro appartiene a uno dei pezzi grossi, a uno di quelli che se ne vanno in giro con l’aria di aver inventato il mondo, o la musica. Uno che magari pensa di avere regalato la libertà totale di espressione alla gente. Un maiale, insomma.
Gli tremavano un poco le mani, perché non è abituato a trovarsi di fronte gli idoli che hanno ossessionato i suoi giorni e le sue notti fino a ieri; e per lui era tutto incredibile, e non cercava neppure di crederlo.
Eppure lo aspettavano al bar della stazione, seduti a un tavolino d’angolo. Bevevano tè e sorridevano, chiacchierando sottovoce. C’era poca gente, e nessuno li aveva riconosciuti. Com’era logico.
Tutti e due invecchiati in modo meraviglioso.
Si era avvicinato piano, in punta di piedi, come per il timore che l’incanto dovesse spezzarsi, che le loro figure si dissolvessero sotto un impatto troppo brusco. E qualcosa (un nodo alla gola, un vortice nello stomaco, un calore perfido alle guance) lo aveva assalito quando, raggiunto il tavolino, aveva chiesto: – Paul McCartney?
Paul aveva alzato la testa, annuito, indicato la sedia libera. – Si accomodi. Vuole prendere un tè con noi? Lei è dell’organizzazione del concerto, immagino.
E, per un attimo, lui era rimasto senza parole.
– Mi spiace di non essere stato qui, oggi – dice James. – Forse potevo fermarlo, impedirgli di ubriacarsi a quel modo. Volevo venire, ma mi hanno trattenuto,
Linda alza la testa, gli sorride debolmente. Il tocco della sua mano è una farfalla, che gli dà i brividi.
– Tu sei molto gentile con noi, James, e te ne sono grata. Ma la tua presenza non sarebbe servita a niente. Quando Paul decide di ubriacarsi, lo fa fino in fondo. Nessuno può fermarlo. Mai.
Piano, si voltano tutti e due a guardarlo.
– Sai – dice Linda – questa disperazione che lo divora da anni non è per lui. È per gli altri. Per i ragazzi di oggi, soprattutto. Forse tu avrai pensato che le sue siano solo le crisi di un vecchio arteriosclerotico che non accetta di finire nell’anonimato, di non essere più riconosciuto per strada, ma non è vero. Paul era contento di essere una celebrità, gli piaceva, però sa benissimo di avere avuto tutto quello che si può chiedere al mondo. Al nostro mondo.
Il silenzio è dolce, avvolgente; e sono già le nove e dieci, l’ora infinita ha allentato la presa. Presto altre ore la sostituiranno, altri giorni. Senza fretta.
– Per lui, per tutti noi, la musica era un modo di comunicare, di vivere assieme. Incidevamo un disco e sapevamo di dare qualcosa, una cosa nostra che altri avrebbero amato e ricordato. Adesso, invece, non c’è più niente. Solo questa solitudine assurda. Ragazzi che si chiudono nel proprio cervello e non riescono a vedere quello che hanno attorno. Non comunicano, capisci? Continuano soltanto a parlare con se stessi. A ripetere cose che sanno già. Perché quello che Paul o Gary o Mick o io abbiamo da dire non è interessante, non ha senso. E lui non lo sopporta. Preferisce uccidersi con l’alcol.
Alle nove e trentuno James si alza, gira attorno al tavolo, appoggia le mani sulle spalle di Linda: e dice: – Il tunnel è lungo e buio, Linda, ma vedrai che ne usciremo. Deve esserci ancora il sole da qualche parte.
EDIZIONI
L’Hotel dei Cuori Spezzati, Musica, Gammalibri 1984
Futuro Europa 21, Perseo Libri 1998
Ciao futuro, Urania 1406, Mondadori 2001
COMMENTO MUSICALE
Paul McCartney aveva composto la canzone a Liverpool, all’età di 16 anni, e il pezzo veniva già eseguito dal gruppo al Cavern durante le interruzioni tecniche dei concerti. In cerca di materiale per l’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, Paul decise di rispolverare il motivo. Decisamente diverso dalla produzione corrente del gruppo, il pezzo si rifaceva agli stili musicali degli anni venti e costituiva un omaggio al padre Jim McCartney, che da giovane aveva interpretato quella musica. Inoltre, si inquadrava nel recupero del filone musicale dal sapore di vaudevillee dalle sonorità da music hall che a metà degli anni sessanta in Gran Bretagna veniva ripreso con discreto successo da gruppi come la New Vaudeville Band (Winchester Cathedral è un loro celebre successo del 1966), i Temperance Seven, la Bob Kerr’s Whoopee Band e la Bonzo Dog Doo-Dah Band.
The Beatles – When I’m Sixty-Four
A Day in the Life è unanimemente riconosciuta come una delle vette compositive più alte dei Beatles, e non a caso risale a una fase in cui il gruppo attraversava un felicissimo momento creativo – lo stesso in cui germogliarono Penny Lane e Strawberry Fields Forever. Il brano, creazione di Lennon e di McCartney che vi lavorarono fianco a fianco, vuole essere una metafora della limitatezza di una visione “oggettiva” della realtà in contrapposizione alla percezione del mondo attraverso l’ampliamento sensoriale prodotto dall’assunzione dell’LSD.
The Beatles – A Day In The Life
Ricostruzione della copertina al Beatles Museum di Liverpool
Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band è l’ottavo album dei Beatles, pubblicato nel 1967 e prodotto da George Martin; venne messo in commercio nel Regno Unito il 1º giugno 1967. È considerato uno dei capolavori dei Beatles nonché uno tra i dischi più importanti della musica pop.
Pietro Argenti