NELLA CASA DI ARYAMAN (2018) di Elizabeth Bear

 

NELLA CASA DI ARYAMAN (2018) di Elizabeth Bear“Nella casa di Aryaman” è una storia poliziesca ambientata in un’India futura e tecnologica, con un cadavere in condizioni assai particolari e un astrofisico che lavora all’Università di Bangalore e si occupa dello studio delle stelle. Estrapolazione sociale e tecnologica e novità offerte dalla tecnologia convivono con le tradizioni culturali più antiche e radicate. La protagonista è Ferron, una detective che si trova tra le mani un caso spinoso e delicato, il cui unico testimone oculare è un gatto pappagallo dotato di parola. Accompagnata dal fido aiutante Indrapramit, Ferron dovrà fare i conti con le gelosie dell’ambiente universitario e con le intrusioni di una madre ossessiva che vive in un mondo di memorie immagazzinate in un database virtuale, per venire a capo del rebus, apparentemente insolubile, della morte del fisico Dexter Coffin.
Titolo: Nella casa di Aryaman | Titolo originale: In the House of Aryaman, a Lonely Signal Burns (2018) | Autore: Elizabeth Bear | Editore: Delos Digital | Collana: Biblioteca di un sole lontano n. 53 | Anno di pubblicazione: 2020 | ISBN: 9788825411003

Nella casa di Aryaman (romanzo breve, Delos Digital) di Elizabeth Bear si presenta fin dalla prima pagina come un thriller di ambientazione fantascientifica. Come in tutti i gialli che si rispettino, abbiamo il poliziotto (la poliziotta, in verità), il suo aiutante, il cadavere e un mistero ingarbugliato. Mistero che, in questo caso, risulta ancora più complicato e oscuro a causa dell’epoca in cui si svolge la storia.

Fedele al più rigoroso show don’t tell, Elizabeth Bear, infatti, non spiega né la terminologia né la tecnologia futura presenti nel suo mondo. Ad esempio, si intuisce che i personaggi sono dotati di impianti e interfacce che permettono loro di entrare nella rete o nella Realtà Aumentata, di ricevere dati e di inviarne senza bisogno di device. Tuttavia, non è chiaro fino a che punto essi siano umani o frutto di bioingegneria. Possono intervenire sui propri corpi sia per superare i propri limiti naturali e non provare stanchezza, sia per riprogrammarsi psicologicamente. È possibile persino trasferire la coscienza da un corpo a un altro e creare individui a partire da DNA opportunamente modificato. Parrebbe che queste tecnologie molto avanzate conferiscano abilità sovrumane agli individui esattamente come permettono di dar vita ad animali potenziati (dotati di parola e non solo) e a piante che fungono da impianti fotovoltaici.

Tutto ciò, in verità, lo si intuisce, in quanto non viene in alcun modo esplicitato. Mi scuso, dunque, se ho compreso male alcuni aspetti e sarò molto grata a chiunque voglia fornirmi delucidazioni.

Stupisce, in un testo così fedele al credo dello show don’t tell, che l’autrice inserisca tra parentesi la spiegazione di una sigla ( forse ha capito di avere esagerato?) o che riversi sul lettore pagine di riflessioni della protagonista, la quale ha avuto una formazione come esperta di mitologia greca e sanscrita, ma ha deciso di entrare in polizia. Accade, dunque, che, seguendo il filo delle sue conoscenze pregresse, la nostra poliziotta cominci a disquisire di mitologia nel bel mezzo delle indagini. Questa scelta narrativa apparentemente incomprensibile dovrebbe caratterizzare il personaggio e al tempo stesso viene usata come espediente per fornire un indizio chiave, ma non mi pare ben integrata nel testo.

Ma torniamo all’ambientazione. Come dicevo, la storia si svolge in un futuro ipertecnologico, che presenta aspetti classici del cyberpunk (con tanto di riferimenti alla dipendenza da realtà virtuale) e solarpunk. Alcuni accenni, anche in questo caso vaghi e non esplicitati, ci informano che sulla Terra ci sono state una serie di tragedie e disastri ecologici e sociali, cui l’umanità ha reagito da un lato mettendo in campo tecnologie ecocompatibili ad alto rendimento, dall’altro rifugiandosi nella rete.

L’ambientazione così delineata non ha quindi una vera connotazione geografica. In pratica, nonostante il libro venga presentato come fantascienza che si svolge nell’India del futuro, di indiano c’è ben poco. Sì, i protagonisti mangiano samosa e dosa (tra l’altro, forse l’autrice non sa che le dosa non sono sfoglie croccanti), in casa indossano un salwar dress, accendono incensi a Ganesha, vivono in un clima caldo e hanno parenti impiccioni fissati con il matrimonio. Un po’ poco per giustificare la presunta ambientazione indiana. Viene quindi fatto di chiedersi se questa scelta dell’autrice non derivi dal desiderio di aggiungere un po’ di spezie, un po’ di esotismo (molto di moda in questo periodo) a un racconto che non spicca, come vedremo, per una costruzione rigorosa e, tutto sommato, ricombina temi già visti.

In questa cornice Elizabeth Bear cerca di dare spessore alla protagonista con il vecchio trucco di traumi familiari e del rapporto difficile con la figura materna, ma, secondo il mio modesto parere, non riesce nell’intento: queste pennellate restano superficiali.

Quanto alla trama, alla fine del racconto restano molti dubbi sulla risoluzione del mistero. In primo luogo il gatto geneticamente modificato, che sembrava la chiave di volta della storia, risulta del tutto inutile a questi fini. Un grazioso soprammobile che miagola e parlotta. Inutili sono anche alcuni momenti dell’indagine (per esempio la visita alla figlia della presunta vittima all’interno della realtà virtuale). Ma quel che è peggio, non solo le modalità dell’omicidio (manco a farlo apposta sono avvenute grazie a una tecnologia super avanzata che l’autrice non spiega nei dettagli), ma anche il movente sono oscuri.

Come se ciò non bastasse, questo romanzo breve si conclude con un tono filosoficheggiante, che forse ha l’intento di nobilitare il testo. Peccato che sia in contrasto con lo spirito della storia.

Per farla breve, il lettore viene gettato in un guazzabuglio che lo disorienta e alla fine lo lascia insoddisfatto. Si aspettava un thriller ambientato nell’India del futuro, ma si ritrova per le mani un miscuglio senza un’identità ben precisa, chiuso in modo affrettato e poco coerente con il resto della storia. E non si dica che ciò deriva da una cattiva traduzione. Anzi, credo che Antonio Ippolito abbia fatto un ottimo lavoro, tenendo conto del testo originale.

Ho voluto leggere il libro perché anch’io ho scritto un romanzo di fantascienza fortemente legato alla cultura indiana (su Andromeda la recensione di Ezio Amadini) e un romanzo che ha per protagonista un gatto geneticamente potenziato. Ne sono rimasta delusa. Mi aspettavo di più da un’autrice pluripremiata come Elizabeth Bear. Ciò non toglie che Delos Digital abbia fatto bene a pubblicarlo: è bene che i lettori abbiano una panoramica ampia di ciò che esce in ambito fantascientifico, soprattutto quando si tratta di autori importanti. Suppongo che in questo specifico caso non ci troviamo di fronte alla migliore produzione di Elizabeth Bear.

O forse, affezionata come sono alle storie di ampio respiro, costruite in modo rigoroso, in qualche modo “classiche”, non riesco ad abituarmi a certa fantascienza, che, sempre più di frequente, vedo osannata e apprezzata.

Caterina Mortillaro