Uroboro del simbolo e labirinti di senso
Romanzo del terrore composto da una serie di racconti collegati tra loro in cui Dyson e Phillips – giovani intellettuali le cui principali occupazioni sono oziose passeggiate per le vie di Londra intervallate da amabili dissertazioni filosofiche – incappano in curiosi personaggi sbucati misteriosamente da non si sa dove, ognuno dei quali decide di raccontare ai pazienti ascoltatori la propria inquietante vicenda per poi ritornare, altrettanto misteriosamente, da dove sono venuti. I due si trovano, così, immischiati in una complicata sequela di casi inspiegabili e misteriosi: improvvise apparizioni di monete rare e non meno di esseri umani, corpi che si disciolgono per intervento di sconosciute polveri chimiche, tavolette con sopra criptiche annotazioni, ma soprattutto cadaveri sempre rinvenuti “in circostanze misteriose” (quelli che si ha la fortuna di ritrovare…). Ogni digressione è un nuovo velo calato sugli occhi dei lettori per coprire la storia più complessa e inquietante di tutte fino al magistrale epilogo, che spazza via ogni inganno con un unico gesto. Ne “I tre impostori” Arthur Machen ci scorta in una Londra notturna e misteriosa, dove ogni coincidenza è possibile e la realtà quotidiana assume colori tragici e crudeli, tra omicidi e sparizioni, criminali enigmatici e sinistri complotti. Questa edizione presenta un’introduzione di Carlo Pagetti e un’illustrazione di copertina di Antonello Silverini.
Titolo: I tre impostori | Titolo originale: The Three Impostors, 1895 | Autore: Arthur Machen | Genere: Orrore | Nuova edizione Fanucci | Collana: Piccola biblioteca del Fantastico (2020)
Una parte della bellezza dell’opera di Machen (The Three Impostors or The Trasmutations, 1895), ripubblicata nel 2020 da Fanucci con traduzione dall’inglese di Roberta Rambelli e introduzione di Carlo Pagetti. risiede innanzitutto nella volontà di gestire la collocazione degli eventi come se questi fossero improvvisamente gettati in un labirinto e come se il lettore avesse il compito di riordinarli pian piano. Pur essendo di origine gallese, Arthur Machen scelse come scenario per il suo I tre impostori la sorprendente Londra di fine Ottocento, evidentemente attratto dall’aura esoterica della capitale. La scelta dello sfondo d’ambientazione, però, non è esclusivamente ispirata dal fascino della metropoli: è chiaro che l’autore avesse intenzione di assimilare la Londra dell’epoca e l’articolata e varia topografia londinese all’andamento e alla distribuzione degli eventi.
La premessa costituisce infatti soltanto la coda di un lungo e affusolato uroboro, mentre i racconti che vanno a riempire il vuoto tra le sue spire creano un effetto ad intermittenza volto a separare dalla cornice gli incontri dei due protagonisti con i fantomatici tre impostori e le storie che essi narrano. Il finale del romanzo non è altro che la testa del mitico serpente: tutto spiega e tutto rende chiaro, andando a colmare quello stato di spiazzamento derivante da una premessa volutamente confusa e intellegibile solo a lettura conclusa. È evidente la volontà dell’autore di voler creare una narrazione ad anello, che accompagni il lettore , con un movimento circolare eppure accidentato, dalla fine all’inizio della vicenda e viceversa.
Il romanzo è caratterizzato dalla presenza di una cornice, i cui protagonisti sono il fantasioso signor Dyson ed il più composto signor Phillips, e all’interno della stessa sono narrate le storie che coinvolgono invece i tre impostori ed un misterioso ragazzo con gli occhiali in fuga. In particolare, non mostrando attitudine ai principi del realismo e del naturalismo, Dyson, osservatore acuto ed interessato ad ogni singulto del quotidiano attrae le simpatie dell’autore.
La narrazione, come si è detto, procede in modo incostante, passando da un piano all’altro, dalla cornice principale alle storie secondarie narrate dai tre impostori e viceversa.
I racconti che i tre impostori riportano a Dyson o a Phillips sono indipendenti l’uno dall’altro, tanto che alcuni di essi hanno visto la pubblicazione anche singolarmente, come nei casi di per Storia della polvere bianca e Storia del sigillo nero. Alcune delle storie non sono ambientate a Londra e addirittura se ne annovera una, L’incontro nel bar privato, ambientata nell’Italia meridionale. Quest’ultima storia non è certo quella che spicca maggiormente, così non spicca neanche La vergine di Norimberga, ma entrambe le narrazioni appartengono ad un progetto più grande che non si limita meramente a raccogliere racconti al di sotto di una cornice, ma che intende illustrare la molteplicità interpretativa del mondo da parte dell’autore, attraverso gli occhi dei due protagonisti principali. L’entusiasmo del signor Dyson è lo stesso entusiasmo vitale che muove l’autore, così come la compostezza del signor Phillips è la stessa che mantiene Machen saldo alla realtà. Un elemento solo, un oggetto chiave, una moneta antica – o meglio, un “Tiberio d’oro” – unisce la cornice ai racconti, i due protagonisti ai tre impostori, tutto e tutti al misterioso giovanotto con gli occhiali. E proprio la Storia del giovanotto con gli occhiali è a chiusura del romanzo e a spiegazione della premessa. Di tutte le storie narrate quest’ultima è quella più particolare, essa mantiene i connotati di una vicenda thriller e weird, ma sfocia in una inaspettata immagine finale (che poi altro non è che l’immagine già allusa della premessa) così brutale e cruda da chiudere il sipario con violenza inaspettata.
Tutte queste storie sono raccordate dal “Tiberio d’oro”, che come si è detto rappresenta un punto cardanico, pur non presentando connotati magici o soprannaturali. Esso è semplicemente una moneta antica dalle splendide fattezze, di enorme valore antiquario ma anche simbolico.
Recuperare la moneta in questione è l’obbiettivo primario dei tre impostori ed è la causa delle peripezie del povero giovanotto con gli occhiali, il quale si ritrova suo malgrado in una situazione spiacevolissima oltre che evidentemente pericolosa. I tre impostori infatti non hanno alcuna remora e non si fanno scrupoli. Essi appartengono ad un gruppo, una setta segreta e dedita a riti bacchici, e al cui vertice siede lo spregiudicato dottor Lipsius. Machen, a riprova della sua ingegnosità letteraria, non a caso fa ricadere l’interesse della setta e dei tre impostori sul “Tiberio d’oro”, una moneta che, tralasciando l’immenso valore in quanto oggetto antico, rievoca per loro rituali orgiastici e libertinaggi, come una sorta di simbolo che possa dunque rappresentare la setta stessa. (Tiberio, infatti, era stato accusato di aver preso parte festini e laidi giochi).
Naturalmente, anche in quest’opera come ne Il grande dio Pan, è evidentissimo l’interesse dell’autore per il mondo classico, soprattutto citato da Phillips o da personaggi secondari protagonisti delle storie narrate dai tre impostori, ma anche rappresentato da riferimenti al folklore o al “piccolo popolo”, come avviene ne Storia del sigillo nero.
I tre impostori rappresenta uno dei punti più alti dell’opera di Machen, oltre che per l’intreccio degli eventi anche per l’ingegnosità letteraria e l’analisi critica cui l’autore sottopone la realtà a lui contemporanea. Inoltre, la lettura del romanzo induce in uno stato costante di inquieto sospetto che affanna il lettore e lo angoscia fino alla fine. Per tutta l’opera si avrà la sensazione di stare per assistere ad uno o più eventi catastrofici, ma soltanto al capolinea della vicenda si potrà tirare un sospiro di sollievo, seppur amaro.
Machen è, prima che un letterato curioso, un osservatore attento, e conosce e riconosce quali sono gli argini della realtà e quelli della fantasia; pur essendo controtendenza per l’epoca, non chiama il soprannaturale con nomi differenti e pseudoscientifici, semplicemente lo nega ed allo stesso tempo lo celebra, come se egli avesse visto un po’ più in là e appartenesse ad un altro tempo.
Elena Vetere