Fantascienza e orrore: Un connubio ideale per il cinema

Michele TetroUn genere che, colto nei suoi aspetti immediatamente riconoscibili e condivisi, fa suo asse portante raziocino, elemento scientifico e meraviglia (fantascienza), un altro invece che si muove lungo il cardine dell’irrazionale, dell’elemento sovrannaturale e del terrore (horror): di primo acchito, una loro fusione potrebbe dare a pensare a un risultato sconcertante e antipodico.

The thingEppure, non è mai stato così, anzi: fantascienza e horror si sono sempre felicemente sposati. Vuoi perché meraviglia e terrore sono due facce della stessa medaglia, sensazioni automatiche ambedue di fronte all’ignoto, vuoi perché entrambi i generi condividono tematiche e concetti comuni: la presenza di un mostro (“monstrum”, nella sua originale valenza latina di manifestazione straordinaria, fuori dalla realtà, di prodigio o segno divino, di rottura delle leggi della natura all’insegna dell’ammonimento per l’uomo che vi incappa, sia esso una creatura aliena, un robot impazzito, un mutante dai fantastici poteri o, di contro, un fantasma, un vampiro, un demone infernale), la figura di uno scienziato pazzo e dei sui esperimenti, il tema del contagio e della trasformazione dei corpi. Due generi altamente contaminanti, che si contaminano soprattutto tra loro, fin dall’inizio. Pensiamo al Frankenstein di Mary Shelley, definito il primo vero romanzo di fantascienza, e al Frankenstein cinematografico, divenuta icona del genere horror, pensiamo all’attuale ondata di produzioni cinematografiche con i morti viventi, non più definiti per l’aspetto sovrannaturale che ne scatena l’agire bensì colti sotto quello fantascientifico di “contagiati”, vittime di una matrice para-scientifica (un virus, una pestilenza, un agente extraterrestre), pensiamo soprattutto all’opera del regista David Cronenberg, vero araldo del genere, con le sue opere considerate, nei primi anni Settanta, addirittura “malate” per il loro disgusto visivo e per le tematiche forti e scabrose affrontate (contaminazioni, sessualità deviata, diffusione di elementi patogeni e virulenti, aberrazioni genetiche, mutazioni del fisico e della mente, ibridi di carne e metallo, nuovi esseri al di là della collocazione “umana”). In realtà, ne è convinto chi scrive, non sarebbe neppure troppo difficile individuare in certi film i temi portanti che li reggono, e conseguentemente collocarli nel loro vero ramo di appartenenza, ma oggi la fusione dei generi si è fatta più capziosa e in effetti è necessario, anche solo per comodità, utilizzare il sottogenere “fanta-horror” per raggrupparli, sfuggendo così alle insidie di una catalogazione forzata e che indurrebbe gli appassionati dell’uno e dell’altro genere a fiere quanto inutili battaglie per l’appropriazione dell’opera in oggetto.

QuatermassVero è che fantascienza e horror cinematografici sono andati a braccetto senza problemi fin dagli anni Cinquanta, nei doppi spettacoli dei drive-in e nelle maratone televisive di Halloween, con alieni maligni o blob extraterrestri affiancati a creature di Frankenstein o vampiri vari, per la gioia di ogni adolescente bramoso di saltare sulla poltroncina dello spettatore, e limpidi esempi di reale fusione intrinseca di questi due generi, quindi non più di sola accomunanza tematica, ci sono stati ben prima del periodo di tempo che prendiamo in considerazione in questo libro: basti pensare a pellicole come La cosa da un altro mondo di Christian Nyby-Howard Hawks, 1951, ai primi due film dedicati al professor Quatermass diretti da Val Guest nel 1955 e 1957 (L’astronave atomica del dottor Quatermass e I vampiri dello spazio), al nostrano Terrore nello spazio di Mario Bava (1965), dove in trame genuinamente fantascientifiche si siringavano forti aspetti tipicamente horror, o viceversa in trame prevalentemente horror si riverberava l’afflato fantascientifico, come in La maledizione dei Frankenstein di Terence Fisher (1967) o in qualunque film con protagonista uno scienziato che subisce le conseguenze dei suoi esperimenti, diventando magari un mostro omicida.

occhi bianchi sul pianeta Terra di Boris SagalNuovi sentieri da esplorare

Un cult-movie anglo-spagnolo, Horror Express di Eugenio Martin (1972), potrebbe assurgere a paradigmatico emblema del connubio fantaorrorifico, ereditando la splendida coppia di attori Peter Cushing e Christopher Lee, ancora sulla cresta dell’onda come star per eccellenza del cinema gotico hammeriano, in una vicenda che vede un fossile biologico contenente un’entità extraterrestre, in grado di trasmigrare di corpo in corpo per sopravvivere, infestare il treno della Transiberiana del 1906, dove è intervenuto pure un reggimento di cosacchi che ne diventerà preda post-mortem: solo due scienziati rivali saranno in grado di portare il treno alla distruzione, impedendo l’ulteriore proliferare della piaga aliena. Sempre nei primi anni Settanta buon suggello del genere è anche il secondo adattamento del celebre romanzo fanta-horror per eccellenza Io sono leggenda di Richard Matheson, trasposto sul grande schermo con 1975: occhi bianchi sul pianeta Terra di Boris Sagal, in cui la guerra batteriologica tra URSS e Cina genera una schiatta di mutanti albini in sostituzione dei vampiri dell’originale libro (e film, il rimarchevole Ultimo uomo sulla Terra di Ubaldo Ragona –Sidney Salkow del 1964, cui deve molto il successivo La notte dei morti viventi di George A. Romero), destinati poi a tramutarsi in zombi nei successivi adattamenti, Io sono leggenda di Francis Lawrence (2007) e I Am Omega di Griff Furst (2007).

Il citato David Cronenberg, ex scrittore di fantascienza, inizia del 1969 il suo sconvolgente viaggio nella mutazione del corpo umano, con Stereo e Crimes of the Future, sfociando in una serie di pellicole provocatorie e spesso quasi insostenibili alla vista, per quando rigorosissime e coerenti, quasi dal taglio clinico-scientifico, di cui ricordiamo Il demone sotto la pelle (1975), Rabid (1977), Brood, (1978) Scanners (1981), Videodrome (1983) e La mosca (1986), un personalissimo percorso creativo e in divenire su come potrà evolversi l’uomo del futuro attraverso contaminazioni, malattie, fusioni molecolari-genetiche, ibridi di carne e metallo che avranno in Shinya Tsukamoto l’epigono estremo nipponico. A quest’ultimo regista, sorta di one man band produttivo, si deve la trilogia di Tetsuo, a partire dal 1989, con il sequel-remake Tetsuo II: The Body Hammer (2002) e Tetsuo III: The Bullet Man (2009): film visionari, al limite della sopportazione visiva per stile e montaggio, in cui si fondono, è proprio il caso di dirlo, corpi umani e elementi metallici, perversione fisica e sessuale, feticismo, morte e distruzione, portate avanti con onirica virulenza da macchine biomeccaniche in grado di assimilare al loro interno tutto ciò che incontrano sul loro cammino, in un orgiastico inno apocalittico che non risparmia nulla e nessuno. Anche il sottogenere natura-violentata-si-ribella, con la cruenta rivolta degli animali contro l’essere umano, molto in voga dagli anni Settanta, consente di parlare di fanta-horror, e soprattutto quel tipo di pellicole volte a evidenziare il risultato d’improbabili fusioni genetiche tra essere umano e animale, sperimentali o accidentali che siano: tra gli innumerevoli film al riguardo si potrebbe citare Il Kobra di Bernard Kowalski (1973), che inscena un ibrido uomo-serpente,

L’isola del dr. Moreau di Don TaylorL’isola del dr. Moreau di Don Taylor (1977, dal romanzo di H. G. Wells), con le sue tragiche sperimentazioni di antropomorfizzazione animale, o Mimic di Guillermo del Toro (1997), con i suoi insetti antropoidi geneticamente modificati in grado di mimare i comportamenti delle proprie prede. Di pari passo si intensifica la produzione di pellicole dedicate al tema del contagio e dell’infezione, e quello dell’inquinamento biologico della natura e del degrado ambientale, che genera aberrazioni vitali e feroci sia in campo umano che animale che nella loro stessa fusione genetica, tra le quali vanno almeno ricordate la realistica Doomwatch-I mostri del 2001 di Peter Sasdy (1972, un agente inquinante all’isola di Balfe ingenera negli abitanti acromegalia prima e follia omicida dopo), la più baracconesca Profezia di John Frankenheimer (1979, una cartiera inquinante nei boschi del Maine provoca la nascita di furiose creature mutate e assassine, venerate dagli indiani) e lo sbalorditivo per denuncia sociale e incassi registrati in Corea The Host di Bong Joon-Ho (2006, un mostro generato dalla dispersione di formaldeide nel fiume Han si scatena catturando prede umane, affrontato unicamente da una disastrata famiglia di poveracci).

Alien di Ridley ScottLa lezione di Alien

Anticipato da Cronenberg e dai primi passi del sottogenere body-horror, il vero rilancio del fanta-horror si ha nel 1979, con l’uscita di Alien di Ridley Scott, vero e proprio kolossal, che narra l’agghiacciante vicenda dell’astronave mercantile Nostromo, in cui si è intrufolato un parassita alieno e mutaforma che trova nell’essere umano matrice vitale e preda finale, contrastato solo dall’unica sopravvissuta, il tenente Ripley, figura di macho-girl destinata a diventare celebre. Questa pellicola, che di fatto assomma in sé molti temi portanti del genere fantascientifico (esplorazione dello spazio, primo contatto con alieni, robot, tecnologia, connotazioni sociologiche molto marcate) al punto da non consentire errate valutazioni sul reale genere di appartenenza, s’impreziosisce dell’elemento orrorifico in virtù della presenza aliena omicida, dai tratti singolarmente lovecraftiani, che viene “partorita”, in una sequenza splatter così famosa da fare scuola, dal torace di uno degli astronauti infettati, con sanguinaria violenza grafica. La valenza horror nella fantascienza, da qui in avanti, si attesta perciò non nell’utilizzo di elementi sovrannaturali bensì nel gore e nello splatter, nel concetto della contaminazione umana-aliena, nelle mutazioni fisiche e mentali dell’uomo, nel cinema della Nuova Carne già stigmatizzato da Cronenberg, e proprio Alien, con la sua cifra stilistica, diventa il paradigma di tutta una serie di film successivi, sovente solo cloni dell’originale, in cui una presenza terrificante, in un ambiente isolato e claustrofobico (sia esso un’astronave o un avamposto sperduto o un sottomarino), scatena un survival-game con gli esseri umani, destinati a lenta decimazione e votati quasi tutti a morte truculenta, salvo riuscire in extremis (e neanche sempre) ad avere la meglio sul mostro. Uno schema che va avanti da oltre 35 anni, ancora lungi dall’essersi esaurito, e che senza sostanziali novità ha portato sul grande schermo film come L’alieno di Jack Sholder (1987), con la caccia tra poliziotto e criminale extraterrestri in forma di grossi vermoidi che si servono di “veicoli” umani (ebbe un sequel fotocopia, L’alieno II di Seth Pinsker, nel 1994), Leviathan di George Pan Cosmatos (1989) e Creatura degli abissi di Sean Cunningham (1989), due pellicole che sostituiscono l’oceano con gli spazi siderali ma che sempre mettono in scena un mostro predatore affamato di esseri umani costretti in ambienti chiusi e asettici, e poi la serie di cui Specie mortale di Roger Donaldson (1995) è capostipite (con i suoi tre seguiti del 1998, 2004 e 2007), in cui l’alieno predatore, ancora disegnato dal grande Hans Ruedi Giger di Alien, ha le splendide (false) sembianze della modella canadese Natasha Henstridge, Virus di John Bruno (1999), in cui il giochino si replica su una nave russa sperduta nell’oceano, ricettacolo di una forza extraterrestre che riesce ad ibridarsi in un mostro biomeccanico, e via così.

Virus di John BrunoE’ però nel cinema di serie B, negli home-movies, nelle produzioni indipendenti di Roger Corman e nei più recenti direct-to-video, dagli anni Ottanta a oggi, che la lezione di Alien alligna di più, si potrebbe dire in modo altamente virulento, giocando le carte dello splatter spinto, del low budget, del sesso e dei nudi femminili gratuiti a compensazione della povertà di mezzi. Il canovaccio “mattanza progressiva di uomini ad opera di mostro spaventoso in luogo isolato”, con una creatura spesso di derivazione palesemente gigeriana, è spudoratamente spremuto all’inverosimile per un’infinita serie di pellicole di poco o nessun valore, di cui ci limitiamo a citare quelle più ricordate dagli appassionati, quantomeno assurte, in un modo o nell’altro, allo stato di piccoli cult-movies: ecco quindi l’italico Contamination di Luigi Cozzi (1980, pericolose uova di alieno marziano giungono sulla Terra), un becero Alien 2 sulla Terra di Ciro Ippolito (1981, splatter senza soluzione di continuità tra gli speleologi attaccati da un essere gelatinoso), Il terrore viene dal passato di Peter Hunt (1981, mostro assassino su piattaforma petrolifera), InseminoidUn tempo nel futuro di Norman J. Warren (1981, uno dei primi esempi di contaminazione extraterrestre tramite violenza carnale), Il pianeta del terrore di Bruce Clark (1981, alieni a gogò e umani condannati su un mondo perduto), Forbidden World di Allan Holzmann (1982, mutante extraterrestre su un pianeta deserto, discinte scream-girls a profusione), Xtro di Harry B. Davenport (1983, alieno stupratore e padre di famiglia, alto tasso di gore), Creature di William Malone (1985, extraterrestre su Titano, ad esaurimento di astronauti falcidiati) ma non possiamo dilungarci oltre in un elenco che sembra essere senza fine.

La cosa di John CarpenterIl rilancio di Carpenter

Una firma autoriale, per quanto abbinata a una pellicola che alla sua uscita fu un inaspettato flop al botteghino, salvo diventare col tempo cult-movie e forse capolavoro dello stesso regista, per un caposaldo del fanta-horror appare nel 1982: si tratta di La cosa di John Carpenter, remake del film di Nyby-Hawks del 1951 (ma più fedelmente aderente al racconto di John Campbell jr), penalizzato forse da questo fatto e dalla coeva uscita della favola spielberghiana ET-L’extraterrestre. L’algida lotta di un manipolo di studiosi in una base antartica contro un indefinibile organismo polimorfo giunto dallo spazio in grado di assimilare e clonare ogni essere vivente costituisce, con la sua tensione, senso di alienazione e paranoia, pessimismo e sfaldamento del concetto di fiducia reciproca un vero e proprio punto fermo del genere, riproposto innumerevoli volte, come già successo per Alien, in altre produzioni a basso costo. Solo il tempo ha potuto ridare il giusto peso al film di Carpenter, paradigma del cinema della mutazione in auge negli anni Ottanta, che nel 2011 ebbe un prequel-remake omonimo diretto da Matthijs van Heijningen Jr. filologicamente corretto ma privo dell’impatto visivo del predecessore.

PredatorE se la creatura xenomorfa biomeccanica vista in Alien ha scolpito l’immaginario collettivo dello spettatore, che se l’è ritrovata con poche modifiche in tutta una pletora di altre produzioni cinematografiche, per non parlare dei sequels ufficiali Aliens-Scontro finale di James Cameron (1986, con il moltiplicarsi del numero degli xenomorfi e l’apparizione della loro colossale regina), Alien III di David Fincher (1993, ambientato in una cupa colonia penale dove precipita Ripley e un esemplare del mostro alieno), Alien-La clonazione di Jean-Pierre Jeunet (1997, con il più alto tasso di gore dell’intera serie, il ritorno di Ripley ibridata con le stesse creature e nuovi orrori biomeccanici), un bilanciamento di parte si è reso necessario per offrirle un degno deuteragonista, poi addirittura antagonista: ecco perciò il cacciatore Yautja sceso sulla Terra in cerca di prede degne, protagonista della saga di Predator, iniziata nel 1986 col film omonimo diretto da John McTiernan, sanguinolenta quanto basta, pur recuperando certi stilemi di Alien stesso, soprattutto nel sequel Predator II di Stephen Hopkins (1990, ambientato nella jungla-metropoli dove il cacciatore alieno può fare strage di bande criminali rivali), inevitabilmente destinata a far convergere l’interesse per un epico scontro tra gli alieni eponimi in due mediocri cross-over, Alien Vs. Predator di Paul W. Anderson (2004) e Alien Vs. Predator II dei fratelli Strause (2007) e poi, stavolta separati, nel quasi remake Predators di Nimrod Antal (2010) e nel deludente prequel di Alien stesso, Prometheus di Ridley Scott (2012, capostipite di una nuova trilogia futura. Al di là delle sequenze splatter di queste due saghe, risulta comunque evidente che l’apporto orrorifico è solo valore aggiunto di storie spiccatamente fantascientifiche. Avrebbe potuto porsi come pietra miliare dell’interazione tra i due generi Space Vampires di Tobe Hooper (1986, ispirato al romanzo di Colin Wilson) ma il risultato finale fu un goffo film incapace di gestirsi il registro delle marce, con un inizio tipicamente fantascientifico, una parte centrale horror, un finale catastrofico quasi a compartimenti stagni: la trama narra della scoperta dentro la cometa di Halley di un’astronave aliena di vampiri energetici, ibernati, tre dei quali vengono portati sulla Terra e svegliati, dando così inizio a disastrosi eventi… dei quali però il pubblico oggi ricorda soprattutto la fulgida presenza di Mathilda May, che recita sempre nuda nel ruolo di una delle succhiatrici d’energia vitale.

Night of the CreepsTerreno fertile per i B-movies

Tentativi più riusciti di buon equilibrio tra i due generi vanno cercati nel vasto sottobosco dei B-movies anni Ottanta, tra i quali e perlomeno doveroso citare Dimensione terrore di Fred Dekker (1986), squisito melange tra alieni invasori, viscidi parassiti, zombi e morti viventi, orrore e commedia, in cui le parti si amalgamano alla perfezione, garantendo un prodotto molto divertente (cosa che non si può dire di decine di altre produzioni coeve) e il geniale Bad Taste-Fuori di testa, opera prima di Peter Jackson (1987), esilarante splatter-gore realizzato artigianalmente da un gruppo di amici, con una squadra di agenti speciali in lotta con invasori alieni antropofaghi: sagra dell’horror più viscerale stemperata all’insegna della risata liberatoria, passaporto per Jackson per produzioni a più alto budget. In giorni più recenti, ad ricordare questi iconoclasti B-movies citazionistici (l’omaggio a nomi, situazioni, scene, personaggi o registi stessi di horror precedenti è una pratica che, assieme allo splatter, manda in visibilio il pubblico teenager) all’insegna del divertimento oltraggioso sarà un purtroppo misconosciuto Slither-Una fame da paura di James Gunn (2006), pellicola irriverente, esagerata, disgustosa ma perfetta riproposta del gusto macabro-orrorifico-esilarante anni Ottanta: un parassita caduto sulla Terra da un meteorite infetta un uomo d’affari, che a sua volta si fa veicolo di prolificazione di oscene lumache aliene in grado, dopo essere penetrate dalla bocca, di trasformare le vittime in zombi al loro servizio, con l’intento di ridurre l’intero pianeta in un unico spaventoso organismo in espansione.

Punto di non ritorno di Paul W. S. AndersonMolto meno interessanti, per mancanza d’intrinseca originalità, quelle pellicole che procurano un’ambientazione spaziale e futuribile ai mostri di precedenti e celebri saghe horror, giunte a raschiare il fondo del barile: parliamo di Hellraiser IV-La stirpe maledetta di Kevin Yagher (sotto lo pseudonimo di Alan Smithee), del 1996, con i demoniaci cenobiti attirati su una stazione spaziale per essere finalmente intrappolati dal discendente dei loro suppliziati, di Leprechaun IV-Nello spazio di Brian Trenchard-Smith (1997), con il sadico folletto impegnato a far strage di marines spaziali, di Jason X di James Isaac (2002), decimo capitolo della saga di Venerdì 13 con un cyber-Jason che sbudella gli astronauti di una nave spaziale finita, guarda caso, nel laghetto di una seconda Terra, dove verosimilmente il pluriomicida di Crystal Lake potrà risorgere alla prima occasione. Se finora il fanta-horror sembra prediligere l’aspetto più meramente splatter del secondo genere, non è però mancato un insolito e almeno visivamente intrigante film che ha saputo coniugare fantascienza e sovrannaturale: parliamo di Punto di non ritorno di Paul W. S. Anderson (1997), una pellicola assai originale ma purtroppo scritta e diretta in modo pedestre. Ambientato sulla gigantesca astronave Event Horizon, che un viaggio ultradimensionale ha portato in una demoniaca regione spaziale simile all’inferno e dalla quale viene riportata una presenza maligna che sembra aver reso viva la nave stessa, il film vede la lenta decimazione degli uomini di una missione di soccorso, posseduti e distrutti dall’entità infernale, in grado di materializzare le loro paure inconsce e i loro desideri proibiti. Ad un contenitore ineccepibile (visionario, claustrofobico, incubico come pochi) fa però riscontro una pochezza contenutistica che sembra semplicemente limitarsi alla semplice citazione di opere precedenti dei due generi (Alien, Hellraiser, Shining, Solaris) senza osare proporre un modello in grado di stare in piedi da solo. Un vero peccato, perché si sarebbero aperti inquietanti scenari degni di essere esplorati meglio. Forse più riuscito l’eco-horror The Bay di Barry Levinson (2012), realizzato con la tecnica del found-footage raccolto da più punti di vista, in cui un parassita nato dalla manipolazione genetica di mangimi per animali si sviluppa come contagio in una cittadina del Maryland, provocando morti orripilanti, corpi divorati dall’interno, allucinazioni, follia omicida nei colpiti, fino all’intervento delle autorità, che scelgono impietosamente di isolare sani e malati per circoscrivere il flagello e nascondere le cause della virulenza.

Dark Skies-Oscure presenze di Scott StewartGioca gli stilemi di certo cinema del terrore (specificatamente quelli della casa infestata, del poltergeist, e della possessione demoniaca) anche il film Dark Skies-Oscure presenze di Scott Stewart (2013), da non confondere con la serie televisiva omonima del 1996, incentrata sugli UFO, anche se alla fine hanno più che un contatto: a causare i fenomeni in una casa abitata da una famiglia americana sono infatti esseri alieni chiamati Grigi, che prendono di mira per i loro scopi misteriosi il bambinetto di sei anni, provocando tutta una serie di situazioni ben oltre l’horror dichiarato. In tempi più recenti, una figura tipicamente appartenente al genere orrorifico, lo zombi o il morto vivente, slitta con facilità a cavallo dei due generi, configurandosi più come “contagiato” o “mutato” per cause chimiche, virus o batteri, perdendo la sua aura soprannaturale e l’atteggiamento antropofago. Qui ci limitiamo a ricordare le pellicole che più stigmatizzano tale trasformazione, come 28 giorni dopo di Danny Boyle (2002), con un contagio dovuto ad un ceppo virale simile alla rabbia mutuato dagli animali, la saga dei cinque Resident Evil, il cui primo capitolo uscì nel 2002 diretto da Paul W. S. Anderson, e World War Z di Marc Foster (2013), con l’umanità falcidiata da un virus che rende i contaminati simili a velocissimi sciami di zombies. Ai giorni nostri, i migliori esempi di più limpido fanta-horror hanno ancora per protagonisti scienziati che fanno il passo più ungo della gamba, amorali o semplicemente pazzi: ce ne offrono emblematiche testimonianze pellicole come Splice di Vincenzo Natali (2009), con la coppia di manipolatori genetici del DNA animale che creano un’entità ibrida femminile in grado di apprendere i sentimenti umani, soprattutto quelli più estremi, fino alle disastrose conseguenze, e il grottesco e controverso The Human Centipede di Tom Six (2010), primo di una trilogia, in cui un folle scienziato vuole unire geneticamente tre esseri umani, collegati bocca-ano e con unico apparato digerente: forse l’apice del fanta-orrore più recente.

I poteri della mente

CarrieUn contesto specifico del paranormale, quello relativo ai presunti poteri della mente umana, ben si rapporta al sottogenere fanta-horror e fu molto gettonato nel cinema a partire dagli anni Settanta, là ove un’implicazione propriamente fantascientifica andava a sfociare in stilemi più dichiaratamente orrorifici, giustificando appieno il connubio tra i due generi. Telecinesi, preveggenza, telepatia, percezioni extrasensoriali, psicocinesi, pirocinesi e altre manifestazioni al di fuori delle leggi della fisica e inspiegabili a livello scientifico furono elementi ben accetti nelle produzioni cinematografiche hollywoodiane, che seppero adottarle in pellicole ai confini dei generi, a partire dall’interesse a queste tematiche maturato da Brian De Palma con Carrie, lo sguardo di Satana (1976), che vede una ragazzina complessata e repressa, umiliata in ogni modo sia a livello familiare che a fronte delle sue crudeli compagne di scuola, scatenare tutta la devastante forza dei suoi poteri telecinetici in una terribile strage finale, in cui perirà lei stessa, e con Fury (1978), anche questo incentrato su ragazzo dai tremendi poteri extrasensoriali, figlio di un agente segreto che lo sta cercando ovunque dopo che i suoi colleghi lo hanno rapito per volere dei poteri alti, bramosi di poterlo utilizzare come arma nei complessi affari internazionali, senza considerare la pericolosità di tali facoltà, che si rivolgono contro loro stessi, tramite una ragazzina con cui il giovane è in contatto telepatico (celebre la sequenza in cui l’aguzzino responsabile della morte del ragazzo e di suo padre viene fatto esplodere in modo sanguinolento dalla giovane che ha ereditato i terribili poteri). In un coma tutt’altro che passivo è anche il protagonista di Patrick di Richard Franklyn (1977): traumatizzato dalla morte, da lui stesso provocata, dei genitori, anche se in condizioni di larva umana il ragazzo possiede facoltà telecinetiche impressionanti, che utilizza cercando di “proteggere” l’infermiera di cui si è invaghito, in realtà provocando tutta una serie di morti prima di essere annichilito da un elettroshock che ne spegne la vitalità.

ScannersIl successo di questo film favorì l’uscita del clone italiano Patrick vive ancora di Mario Landi (1978), praticamente un falso sequel con qualche scena di sesso in più, e del vero remake omonimo Patrick-Evil Awakens di Mark Hartley (2013), che ripropone la stessa storia senza sostanziali differenze. Rimarchevole, per soluzioni visive, ritmo e intensità d’interpretazione, Il tocco di Medusa di Jack Gold (1978), un fanta-catastrofico che vede lo scrittore Morlar (un inquietante Richard Burton), ormai completamente disgustato dall’umana sconsideratezza, in grado di provocare ogni sorta di disastro con i poteri della sua mente, anche dallo stato comatoso in cui viene spinto dalla sua psichiatra, che ne ha intuito le facoltà devastanti: incapace di morire, Morlar continua a scatenare sciagure, inarrestabile a fronte di ogni tentativo di farlo fuori. Dello stesso periodo Jennifer di Brice Mack (1978), un film con protagonista una povera ragazza in grado di controllare gli animali (serpenti e rettili) con la sua forza telepatica, veicolando così le vendette contro chi le vuole male e anticipando Phenomena di Dario Argento (1984), dove l’omonima studentessa viene soccorsa dai pericoli grazie ad un link mentale con gli insetti. David Cronenberg, nel suo viaggio alla scoperta del body horror, affronta i poteri extrasensoriali in Scanners (1981), che descrive la lotta fratricida tra due mutanti in grado di controllare i pensieri altrui e di fare deflagrare i corpi con la forza delle loro menti, l’uno dittatoriale e l’altro mite, quest’ultimo apparentemente distrutto nel duello telepatico finale ma in realtà trasmigrato nel corpo dell’altro, in un finale aperto di rara efficacia (da antologia l’intera sequenza, assieme a quella del cranio che esplode dell’inizio). I sequel Scanner 2-Il nuovo ordine (1991, un poliziotto corrotto cerca di utilizzare gli scanners per il controllo della città) e Scanners 3 (1992, uno scanners impazzito semina il terrore), entrambi di Christian Duguay, non sono certo all’altezza del capostipite, e men che meno i due spin off televisivi Scanner Cop di Pierre David (1994) e Scanner Cop 2 di Steve Barnett (1995), incentrati sul poliziotto telepate Sam Staziak e ormai lontani dai presupposti dell’originale. Effetti catastrofici e orrorifici a iosa per quanto riguarda la facoltà di appiccare incendi col pensieri nelle due pellicole Firestarter-Fenomeni paranormali incontrollabili di Mark Lester (1984), in cui una bambina mutante con un terribile potere distruttivo viene segregata dai servizi segreti e indotta a scatenare l’apocalisse contro di loro, e I figli del fuoco di Tobe Hooper (1990), anche qui con un giovane vittima di esperimenti radioattivi che può generare combustioni spontanee, con esiti terrificanti. Finendo in altro genere, in tempi più recenti, la tematica dei poteri della monte caratterizzerà gran parte dei supereroi Marvel delle varie saghe sugli X-Men.

Il settimo sigillo di Ingmar BergmanEt in Hollywood Ego

Ogni mitologia, cultura o religione del mondo ha fin da tempi immemori offerto la propria iconografia della morte, in un variegato insieme di personificazioni che vanno dalla figura angelica o al mostruoso demone, fino a quella più comunemente accettata e riconoscibile nell’immaginario collettivo dei paesi occidentali, lo scheletro con cappuccio, avvolto da un saio e con una falce in mano. Il Tristo Mietitore ha così avuto occasione di cimentarsi come personaggio a tutto tondo nella cultura di massa, dalla letteratura ai fumetti, dalla televisione al cinema. Lo abbiamo visto impegnato nella celebre partita a scacchi con il Cavaliere Bloch di Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1956), premuroso angelo del trapasso col viso di Robert Redford nell’episodio “Oltre il buio”di Ai confini della realtà (1961), implacabile giustiziere scarlatto in La maschera della morte rossa di Roger Corman (1964), mellifluo cartomante in Le cinque chiavi del terrore di Freddie Francis (1965), filosofico conversatore con l’uccisore di zombies di Dellamorte Dellamore di Michele Soavi (1994), curioso sperimentatore di umane emozioni in Vi presento Joe Black di Martin Brest (1998) e anche in alcune pellicole, rientranti per lo più nel sottogenere fanta-horror, che ce lo mostrano come antagonista finale e risolutore delle vicende umane, contro cui l’uomo stesso si confronta in una lotta (scientifica) spesso impari o votata alla sconfitta. Tra questi film va ricordato il misconosciuto The Asphix di Peter Newbrook (1972), meritevole di riscoperta: la storia, molto intrigante, vede un parapsicologo filantropo vittoriano scoprire per caso, tramite un particolare accorgimento fotografico, che un’aura indefinita grava sulle persone che stanno morendo. Scambiata erroneamente per l’anima in uscita dal corpo, lo studioso si convince invece che si tratti di un’entità energetica succhiatrice di vita (nota agli antichi Greci come “asphix”, lo spirito della morte), intrappolata la quale (che risulta paralizzarsi sotto la luce di speciali lampade al fosforo), si può garantire l’immortalità all’uomo stesso. Ed è l’esperimento che lo scienziato mette in atto con successo su se stesso, catturando il suo “asphix” dopo essersi procurato una morte “momentanea” mediante sedia elettrica. Ma tutta una serie di conseguenze letali, coinvolgenti il suo assistente e la figlia, che perdono entrambi la vita, fanno precipitare la situazione, costringendo l’uomo ad una esistenza immortale senza più scopo alcuno. Il tema della sconfitta del Tristo Mietitore, inteso come preservazione di quell’energia vitale che identifichiamo col termine di “anima”, bypassando quindi il potere nullificatore della morte, e quello della curiosità di contemplare i reami al di là di essa si fondono in due pellicole successive, sempre ascrivibili al sottogenere fanta-horror, Flatliners-Linea mortale di Joel Schumacher (1990) e Oltre la morte di Piers Haggard (1994, dal racconto di Daphne Du Maurier).

Brainstorm-Generazione elettronica di Douglas TrumbullNel primo caso un gruppo di studenti universitari di medicina tenta pericolosi esperimenti per accertare l’esistenza di una realtà post-mortem, arrivando a sottoporsi a decesso apparente per poi essere resuscitati all’ultimo momento, dopo aver contemplato “l’aldilà”. Ma tutto questo provoca il risentimento dei fantasmi apparentemente rimossi del loro passato, la reincarnazione dei loro sensi di colpa mai sopiti e la necessità di fare ammenda, se possibile, dei tristi trascorsi che hanno portato al ritorno di chi non c’era più. Sulla stessa falsariga il secondo film, che vede un’organizzazione segreta sperimentare puntate nel regno dei più mediante i poteri mentali di una giovane autistica e l’imbrigliamento dell’anima di un malato terminale, con infausto intervento della CIA, che vorrebbe ricavare informazioni vitali dagli agenti caduti in missione. Il mistero della vita oltre la morte rimarrà però tale, perché alla fine gli scienziati decidono di liberare l’anima imprigionata e lasciarla balzare nell’infinito in un finale che ricorda anche il fantascientifico Brainstorm-Generazione elettronica di Douglas Trumbull (1983), con la visione di Inferni e Paradisi in salsa forse troppo New Age. Se la morte compare con tutto il suo devastante potere distruttore (e con la sua tipica iconografia di scheletro ammantato) anche nel finale in Inferno di Dario Argento (1980), entità unica in cui si sommano le sinistre Tre Madri delle Lacrime, dei Sospiri e delle Tenebre che infestano gli appartamenti stregati dell’architetto-alchimista Varelli, una vera e propria battaglia tra gli esseri viventi destinati al trapasso e la morte stessa si combatte nella saga di Final Destination, iniziata nel 2000 col film omonimo diretto da Steve Wang. In questa serie, per quanto non si veda mai in scena come personaggio “fisico”, la morte porta a compimento i suoi funerei disegni ingaggiando un confronto con coloro che, grazie a sogni premonitori, visioni o altre circostanze fortuite, sono scampati agli incidenti fatali da essa predisposti, a cominciare con quello del Volo 180, più volte ricordato nell’intera serie, che dà inizio al tutto. In ogni pellicola della pentalogia i protagonisti che hanno così “ingannato” la morte vanno incontro a machiavellici e inevitabili decessi “di recupero” da parte del Tristo Mietitore, che salda così i conti in sospeso, in un intricato gioco di rimandi, indizi, richiami al destino dei protagonisti del film precedente, addirittura possibilità (trovata di merchandising negli extra dei DVD americani) di cambiare le sorti che attendono i ragazzi condannati. Nonostante i piani orditi dalle vittime predestinate per salvarsi la vita e ingannare il loro avversario, alla fine la morte trionferà sempre. La serie è composta, oltre che dal capostipite, da altre quattro pellicole omonime e numerate progressivamente, per la regia di David Ellis (2003), James Wong (2006), ancora Ellis (2009) e Steven Quale (2011). Inevitabile (come la morte, appunto) un sesto capitolo: come si estenderà ulteriormente il potere della Grande Dominatrice?

Michele Tetro

Tratto dal volume “Guida al cinema horror”, di Walter Catalano, Roberto Chiavini, Gian Filippo Pizzo, Michele Tetro, Odoya Editore, 2015.